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Bifest 2012 – Diario, Giorni 4 e 5

Una scena da Il castello di Massimo D’Anolfi e Martina ParentiAncora spazi, questa volta immensi. Immensi quanto un aeroporto, quanto il mare. O almeno, così dovrebbe essere; così pensiamo che sia. Massimo D’Anolfi e Martina Parenti passano un anno girando tra i gates e i metal detector dello scalo di Malpensa e il risultato è una delle opere più interessanti tra quelle proiettate sin’ora al Bifest: Il castello. Proprio come la dimora di un re, simbolo del suo potere e delle sue ossessioni, l’aeroporto di Malpensa diventa in questo documentario il luogo in cui, come affermano i due registi, meglio si riesce a comprendere l’ossessione per la sicurezza, la paura dell’altro e la strategia del controllo che pervadono il nostro presente. Malpensa è il mondo brulicante che vien diviso in pacchi e valige, la mano che lascia filtrare l’acqua solo attraverso le dita. L’infinità finita.

Tale è anche il mare nei racconti dei rifugiati intervistati da Andrea Segre e Stefano Liberti. Uomini e donne provenienti dall’Africa martoriata dalla guerra, che nel 2009 hanno cercato nel mare una via di fuga, invano. Mare chiuso è, sin dal titolo, un’opera che colpisce come uno schiaffo sul viso: come può il mare essere uno spazio limitato? Eppure, il simbolo di una libertà da conquistare è stato trasformato dal nostro paese nella brutale negazione della stessa. In questo titolo, che par quasi un ossimoro, non solo vi è il dramma di questi uomini respinti dall’Italia verso la Libia (dove sono stati incarcerati e torturati), ma anche una conferma della vera e propria opera di risemantizzazione che la politica, la mala politica, ha operato nei confronti di uno dei simboli più potenti, a livello di immaginario collettivo, a livello di archetipo: quello del mare come luogo di libertà, di spazio infinito, senza confini, senza custodi. Divenuto solo una trappola, una terribile illusione.

L’edizione 2012 del Bifest sembra incentrato sul desiderio di ribaltamento degli archetipi, dei miti, dell’immaginario collettivo. Questo può avvenire in modo drammatico, come nel film Maternity Blues di Fabrizio Cattani (dove, ad essere ribaltato, è il binomio canonico maternità-vita, binomio dissolto dalle vicende delle quattro madri assassine protagoniste del film); ma può anche avvenire in un modo che sa anche essere divertente e toccante, come nel caso del documentario di Sabrina Varani, Riding for Jesus. Una storia “americana”, nel senso più folklorico del termine, che ribalta completamente la figura del bikers, visto come personaggio asociale, ai limiti della legalità. Pastor Paulee, il protagonista del film della Varani, è un personaggio che sembra stato creato dalla penna di un romanziere on the road; un predicatore evangelico che, a bordo della sua moto, diffonde la divina novella a uomini che hanno un passato legato alle droghe e alla violenza. Una storia vera, che ha lo stesso sapore romanticamente graffiante di una poesia di Bukowski.

Continuano al Petruzzelli gli appuntamenti dedicati al Premio Fellini 8½ per l’eccellenza artistica, premio che va a Richard Borg, amministratore delegato della Universal Pictures, e al regista Abbas Kiarostami. Davvero un peccato che la premiazione di Borg non abbia costituito anche un momento di riflessione sulle modalità e le logiche alla base della distribuzione in Italia; modalità e logiche che di fatto lasciano nell’oblio molte opere di grande valore, o ne decretano il loro arrivo con anni di ritardo (come Hideout ha dimostrato attraverso la rassegna I Dispersi).

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