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A Simple Life: il linguaggio della quotidianità

Il linguaggio della quotidianità

“È infelicità, dice il calcolo / Non è altro che dolore, dice la paura / E’ vano, dice il giudizio: / E’ quel che è, dice l’amore” recita una poesia di Erich Fried. Una vita è quel che è: senza cercarne lirismi nascosti, né sguazzare nei risvolti drammatici per servire una morale a uso e consumo dello spettatore. Arriva in Italia A Simple Life di Ann Hui, a nostro parere miglior film dell’ultima kermesse veneziana (Coppa Volpi alla bravissima Deannie Yip e solo applausi).

Il film della Hui non è un trattato de senectute, né un apologo sulla serena accettazione della morte. Fedele allo stile documentaristico delle opere precedenti, racconta di un crepuscolo (e di una professione in disuso): spogliato di nomi e riferimenti, se non sul viso e nei gesti di Tao, laddove la temporalità si fa materia filmica, indicandone il ciclico ripetersi. La scena finale, flashback di Roger o forse di ognuno quando immagina la propria mamma che l’attende a casa, è di una bellezza immane perché parla il linguaggio di una quotidianità dimenticata. La coppia Yip-Lau dà corpo a duetti straordinari: Roger e Tao mano nella mano; la donna che, come una bambina, muove le braccia dopo la riabilitazione; la preghiera in ospedale; i fiori deposti dal donnaiolo Kin; i calzini arrotolati alla donna, pudico addio di chi allora impara l’affetto. La Hui tiene fede a quanto dice un regista in una scena che vede il cammeo di Tsui Hark: “Un film è un bambino: devi accudirlo, sennò partorisci un robot”. Senza concessioni al melodramma e, anzi, dando dignità ai momenti comici che convivono con quelli più duri di una casa di riposo, il film indaga i sogni residui di Tao e degli anziani lasciati a morire in corridoio o su una sedia a rotelle. La rinuncia a una vita, a dei figli, non è rinuncia a vivere: è gratitudine, non rassegnato annullamento delle esistenze ‘semplici’ in quelle dei padroni. È la sottrazione della macchina da presa che espunge tutto quanto è accessorio (il passato di Tao) e si riempie dei gesti quotidiani, prendendosi il tempo necessario e accompagnandoli fino alla fine.

La vecchiaia è un ritorno, l’ultimo, a una leggerezza che precede l’abbandono alla morte: la rinuncia alla spettacolarizzazione (eccetto l’accompagnamento musicale: un piano malizioso nei momenti chiave) è fiducia nel verdetto del tempo, carezza filmica nella mano e nello sguardo di Roger. Una pellicola che racconta “quel che è” senza l’ansia moderna di aggiungere parole e significati all’indicibile, all’invisibile. Al cinema il tempo non coincide mai con la vita: e quella di Tao è un’esistenza grata di tutto ciò che è stato, come pure di ciò che non lo è. Meraviglioso.

Curiosità
La coppia Deannie Yip – Andy Lau, affiatata in ruoli familiari, si è ricomposta dopo aver girato una decina di film e dopo che la Yip si era ritirata temporaneamente dagli schermi. La storia è ispirata a quella di un altro Roger (Lee), uno dei produttori della pellicola e omonimo del protagonista del film.

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