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Sotto questa Mole – 27 novembre

Una scena di <i>Love Exposure</i> di Sion Sono<br /><br /><br /><br />  Il primo week-end di festival termina così. Con Nanni Moretti che si aggira per le proiezioni (la Sacher metterà le mani su qualche pellicola?), Sion Sono per le piadinerie torinesi e, dopo il caso Kaurismäki (che ieri si è pure preso dell’ubriacone da Castellitto), una nuova polemica per i corridoi degli uffici organizzativi: Il giorno in più, nuovo film di Massimo Venier con Fabio Volo e Isabella Ragonese è stato “sospeso” dal calendario delle proiezioni stampa. Motivo? Un conflitto direttamente con i produttori del film che preferiscono non far scrivere i giornalisti prima del 29 novembre, quando in conferenza stampa sarà presentato a Roma alla presenza del cast e del regista. Probabilmente nessuno ne ha sentito la mancanza, ma mettetevi nei panni di Amelio: dopo tanti sforzi per alzare il livello di credibilità del TFF con tanto di Red Carpet e Jennifer Lopez, si becca questa uscita snobistica e fuori programma.

Tutto questo accade mentre scelgo di restarmene chiuso in sala per una delle proiezioni più lunghe di tutto il Festival: Love Exposure del “signore del Caos” Sion Sono. Quasi 4 ore di film (che in realtà passano piuttosto in fretta) con tanto di intervallo fra il primo e il secondo tempo come nel cinema di una volta. Una pazzia? No, l’occasione era troppo ghiotta e non ricapiterà facilmente.
Prodotto nel 2008, dopo tre anni buoni di lavorazione, Love Exposure è una miscela esplosiva di religione, perversioni hentai, ambiguità sessuali e lavaggi del cervello. Al centro della storia Yu, (interpretato dalla popstar Takahiro Nishijima, membro della band cult giappo, gli AAA) risucchiato dal vortice di tensioni religiose trasmessegli dal padre (un prete) e di tensioni sentimental-erotiche verso una ragazza che diventerà, casualmente, la sua sorellastra. Tutta la vicenda (che non è sintetizzabile in poche righe) si snoda in diversi capitoli, ognuno dedicato a un diverso personaggio (do you remember Pulp Fiction?) e rappresenta, sopra ogni cosa, il film manifesto di Sion Sono, la summa della sua intera opera, nella quale è possibile ritrovare tutti gli elementi più caratteristici del suo cinema, spaziando dal melodramma alla commedia, dal film di arti marziali all’erotico. E poi ancora: grandangoli, macchine a mano, primi piani alla Dryer, uso smodato di color correction e di musiche classiche occidentali. È il Sion Sono all’ennesima potenza, dunque, capace di orchestrare quattro ore di cinema tutto da godere e nello stesso tempo audacemente orientato a una critica spietata della società giapponese, miseramente rappresentata come una società repressa nelle sue tensioni sessuali oppure, al contrario, manipolata dai dogmi conformisti della “Chiesa Zero”, la setta che riduce le famiglie in un massa conforme, incapace di vivere le proprie emozioni e rintracciare la propria personale identità.

È proprio il tema dell’identità che Sion Sono spinge violentemente all’estremo: la liquidità dell’identificazione sessuale e religiosa rappresenta innanzitutto il suo tentativo di sovvertire il sistema valori di una società fondata sulla massificazione dei comportamenti, preferendo l’individualità complessa dell’essere umano. Con tutte le sue contraddizioni e perfino le sue perversioni.

Per me la giornata poteva anche finire qui. Ma qualcuno mi ha ricordato che anche il cartello dei film in concorso continuava, con tre film che “sulla carta” non apparivano affatto semplici: il tedesco Way Home, il coreano A confession e l’iraniano Three and Half. Il tempo stringe e d’impulso mi butto sulla Corea del Sud, film diretto dall’esordiente e giovanissimo Park Su-min. Dramma sulla vicenda di un ex-torturatore di Stato in piena crisi mistica e alla ricerca del perdono di Dio per le sue malefatte: un conflitto interiore che sfocia nella vendetta privata e nella carneficina delle proprie paure.

Le cose buone: film rarefatto, giocato su un’ottima fotografia, sull’uso maniacale dei dettagli e con un tentativo ambizioso di ripercorrere il tema del “silenzio di Dio” di bergmaniana memoria (Luci d’inverno, 1963).
Le cose cattive: l’incalzare troppo astutamente su un personaggio che non fa paura per ciò che fa ma però ciò che dice (o non dice) e un finale amarissimo che risolve in maniera troppo lapidaria una vicenda che forse meritava qualche approfondimento in più. In questo senso A confession sembra un film necessario per raccontare la realtà sociale e politica della quinta Repubblica sudcoerana e i suoi scheletri nell’armadio, ma non sufficiente per parlare di ottimo cinema.

Mi rimane ancora un po’ di tempo, e decido di dare ancora fiducia a Sion Sono. Scelgo di godermi il suo Hair Extensions, unico film veramente di genere del regista giapponese, horror disimpegnato e pure divertente centrato sul feticismo del capello: l’orrore si genera infatti dalle “extensions” ricavate dal folto (e in constante crescita!) cuoio capelluto del cadavere di una donna uccisa da alcuni trafficanti di organi. Un’opera decisamente minore di Sion Sono, che però non rinuncia a disseminare elementi di critica sociale (la violenza sui minori) e, soprattutto nel finale, trasforma la sua creatura in un’irresistibile parodia farsesca del J-horror: ovvero del Ringu nakatiano e delle sue molteplici versioni hollywoodiane.
Anche quando è eccessivo, Sion Sono, non riesce a deludere mai.

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