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cultura dell'immagine e della parola

Per un pugno di film
Venezia 68 – 7/09

Anton Adasinskiy in una scena di Faust Si stanno sparando le cartucce finali. Era destino lo incontrassi, l’uomo con il fucile: Sokurov, letale con il suo Faust, ha compiuto un’opera grandiosa, della quale in questi giorni si parla usando una quantità smodata di aggettivi: sontuoso, maestoso, apocalittico, esperienziale… Segno che le armi della scrittura di fronte al Faust sono deboli e non adatte a scalfire la profondità di un film così possente.

E infatti non è possibile parlare di Faust. È un gigante cinematografico troppo intenso e immenso per poterlo racchiudere. Già dal prologo dichiara la sua ambizione, con l’immagine ermetica e di densissima bellezza simbolica dello specchio appeso alle nuvole: lo sguardo di Dio? Dall’altezza divina ci precipita sul primo piano granguignolesco del pene di un cadavere dissezionato, tagliato, scavato come fosse un contenitore, un baule ripieno di cianfrusaglie. É il dottor Faust, che sta cercando l’anima.

È tutto un viaggio da quel momento in poi, a rincorrere Faust e il demonio, un buffone maligno, sincero e spietato, un funambolo delle parole, maestro di cerimonie, dal corpo oscenamente mostruoso, rigonfio e deforme. Dalle sue parole si generano paesaggi: il bagno delle fanciulle con il demonio, una ripresa appena sfumata, schiarita, delicata nell’orrore che mostra; la stanza illuminata da una luce verdognola in cui Faust si ritrova dopo aver ceduto la propria anima: silenziosa e appiattita, come fosse sommersa nell’acqua; gli anfratti sporchi e oscuri, caricati di volgarità della taverna dove Faust uccide; il primo piano aureo di Margherita, immerso in un silenzio spaventoso e divino insieme. È ferma in un attimo eterno, trasformata in un’icona. E ancora, le lande desolate in cui approda alla fine insieme al demonio: chilometri di sassi enormi, una landa di montagne da scalare, grigie e solitarie, e un geyser caldo che ribolle, vivo e tondo, un grembo, sembra il luogo l’origine del mondo e si agita con la stessa violenta passione creatrice – e dannatrice – che anima il bisogno di godere/scoprire/esplorare/possedere che muove Faust.

Sokurov crea un cinema che esiste di per sé e si autoalimenta, non ha bisogno del mondo a cui rifarsi, e si lascia navigare come un mare sconosciuto, in cui non è possibile sapere se si approderà mai alla terraferma.

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