hideout

cultura dell'immagine e della parola

Nella tana dell’orco

Nella tana dell'orco

Il Male e l’innocenza di Francesca Bertazzoni *******

I giovanissimi membri delle bande del paese giocano a fare i grandi. E per fare i grandi giocano alla guerra, proteggendo e conquistando un fortino fatto di rottami di lamiere e oggetti dismessi che chiamano “il castello”.
Il castello non è un luogo con una struttura precisa, ma è mobile, una creatura ibrida: gli ingressi si trasformano, si chiudono e si creano nuovamente,i labirinti di corridoi possono apparire come una pancia accogliente in cui rifugiarsi o come claustrofobici anfratti pieni di insidie.
Ruggine si prende il suo tempo filmico e il suo spazio scenografico, inventandosi un ambiente, un luogo che sembra disperso, solitario, isolato, lontano da qualunque contatto con la realtà. È un luogo dell’anima infatti, immaginato e per questo reso assoluto, il più elastico e simbolico possibile, in modo da poter accogliere e rappresentare una storia topica: l’incontro dell’innocenza con il Male.

Il film si muove avanti e indietro nel tempo come se il suo discorso fosse comunque lineare: dai ragazzini agli adulti che sono diventati, la distanza è minima, perchè Gaglianone è interessato a mostrare le conseguenze di questo incontro, le cicatrici rimaste dopo uno scontro così efferato. Allo stesso modo piega lo scandire del tempo e delle inquadrature secondo una visione non realistica degli eventi e dei personaggi – soprattutto del dottor Boldrini, un’inquietante Filippo Timi –, ma filtrata attraverso gli occhi dei bambini. Sono loro il punto di fuoco attraverso cui il regista sceglie di inquadrare tutto il racconto: emerge in questo modo, con tutta la sua forza disturbante, l’interpretazione di Timi, l’orco e il vampiro, il babau e l’uomo nero. Incarna il mostro per eccellenza, il Male contrapposto all’innocenza, il cattivo di ogni storia che vuole mangiare gli innocenti.

Gaglianone si muove attorno a Timi con un trasporto respingente, quasi a voler indagare da vicino una creatura malefica che risulta contemporaneamente – come solo il Male riesce a fare – repellente, spaventosa ma seducente, incantevole. Ed è proprio attraverso questo charme luciferino che il Male rapisce i piccoli e la loro fiducia nel mondo degli adulti: con la la sua voce, ascoltata ripetutamente dal regista, che insiste sui toni bassi e rochi di Timi come a voler creare una sorta di litania stregonesca; con i suoi gesti estranei e distaccati dalla realtà, isterici e folli, come di un essere alieno che si ritrova spaesato un mondo che non conosce e che però ha deciso di conquistare; con il sostanziale anonimato della sua malvagità, spesso allusa attraverso inquadrature parziali di Timi: un’ombra del suo corpo, il suo corpo decapitato, un corpo che spesso è solo un abito elegante visto da dietro, un paio di scarpe lucide, porzioni di arti immobili e in attesa di scattare sulla preda.

La discesa negli inferi del Castello è definitiva e senza speranza: Gaglianone richiama i toni del cinema di genere horror nelle luci e nell’interpretazione di Timi, enfatica, caricata. In quel momento, nel momento della sua fine, il mostro si rivela, incarnazione dell’orrore allo stato puro, di qualcosa che fino a poco tempo prima era solo allusa, accennata. Solo quando rivelato il Male può venire sconfitto.

Senza dubbi, senza necessità di Matteo Mazza *****

Ruggine, quarto lungometraggio dell’interessante Gaglianone (Pietro, Nemmeno il destino, I nostri anni, sempre diversamente fortunati) racconta una storia di bambini e adulti. I bambini sono le vittime e gli adulti sono i carnefici. Questa, in sintesi, la traccia del film.
La trama, la forma e lo stile del film, invece, appaiono più complessi, senz’altro stratificati. Infatti, i bambini sono tanti, ciascuno con un carattere preciso, netto, inconfondibile e distinguibilissimo: il duro, il molle, la curiosa; i luoghi si alternano: dalle colline desolate al cortile sotto i palazzoni della provincia di Torino, fino al castello di lamiere, ma anche, poi, la casa di Accorsi, il bar di Mastandrea, la scuola della Solarino; i tempi della narrazione sono due, passato e presente, e vengono rappresentati (anche simbolicamente) attraverso l’utilizzo di due gamme di colori predominanti: giallo, nel passato, blu, nel presente. E poi c’è il cattivo, il mostro fatto di carne, ossa e voce tenebrosa (Timi, anche qui imbrigliato nel ruolo del tenebroso, ma meno incisivo che in altre occasioni, tipo Come Dio comanda).

Il tono horroristico però, rimane emotivamente distaccato dallo spettatore perché Gaglianone sembra più interessato a spiegare, a mettere parole in bocca ai suoi adulti. Questa distanza è l’aspetto più debole e preoccupante del film, che dovrebbe trovare il suo punto fermo nell’emotività. Così, mentre la narrazione del passato prosegue senza grossi intoppi, ma nemmeno senza sorprese (si potrebbe aprire una parentesi molto più lunga relativa al coinvolgimento dei bambini nel cinema italiano confrontando Ruggine con altri titoli certamente più riusciti, da Io non ho paura , a Tu devi essere il lupo o Rosso come il cielo , tanto per fare qualche esempio), le scene costruite nel presente, con protagonisti i tre attori già citati, sono il vero freno di un film che sembra andare al rallentatore e poco capace di stringere i legami tra i due livelli narrativi.
Un film così tanto calcolato (e “sottolineato”, e “ricalcato”) lascia lo spettatore senza domande dubbi, necessità. Fermo. Annoiato?

Non c'è ancora nessun commento.

Lascia un commento!

«

»