hideout

cultura dell'immagine e della parola

Aspetta e spera
9 settembre 2011

Gabriele Spinelli in una scena dell'Ultimo terrestreMantengo, anche per questa volta, la linea di un “report” perché questi sono stati giorni che mi hanno capovolto, perché ci sono stati tanti film, tante visioni, tante esperienze. È una linea più dura che mi permette di inseguire un ordine. Le idee vanno custodite, difese, protette.
Il mio Leone d’Oro va al film A Simple Life. Ma, se dovessi scommettere, punterei banalmente su tre titoli: Polanski, Cronenberg, Sokurov.

Questioni irrilevanti a parte, la Mostra che spara gli ultimi colpi, si è chiusa con il film della figlia di Mann (e nel suo film si spara di brutto) e la consegna del Leone d’Oro alla carriera a Marco Bellocchio (che secondo me non l’aveva presa bene quando non premiarono, ai tempi, qui alla Mostra, il suo Buongiorno Notte; per la cronaca, vinse Il ritorno).
La prima si è sperimentata nel cinema di genere ricavandone un interessante risultato (aspettiamo e speriamo che si affermi, il padre garantisce); il secondo sperimenta da sempre e nel suo prossimo film La bella addormentata (che avrà sullo sfondo la vicenda di Eluana Englaro) racconterà l’Italia da un punto di vista politico e mediatico. Aspettiamo e speriamo.

Ecco l’ultima manciata di film.

Là-bas, di Guido Lombardi (Settimana della Critica). Mentre scrivo apprendo che il film di Lombardi, napoletano classe ‘75, regista di backstage e documentari, nonché sceneggiatore vincitore per due volte del Premio Solinas, ha vinto il premio Kino aggiudicandosi la 26° SIC. Il film racconta la strage di Volturno del settembre del 2008, quella in cui morirono per mano della camorra sei ragazzi africani. Storia interessante, film d’impatto, ruvido e imperfetto, realizzato con due soldi ma ambizioso e in cerca di realismo. Il titolo letteralmente significa “laggiù”, suono e significato simili in francese e in dialetto napoletano. Riprese a mano e colori inaciditi, musica rap, e tanta voglia di mettere in scena l’avidità del male. P.s. classifica personale della SIC: Louise Wimmer, C. Mennegun, Il Campo, H. Belon, Là-bas, G. Lombardi.

Io sono Li, di Daniele Segre (Giornate degli Autori). Ecco cosa significa trovarsi di fronte a un buon film italiano. Segre, veneto d.o.c. nato a Dolvo (VE) nel 1975, regista di documentari utili e ben girati (come Il sangue verde, l’anno scorso qui alla Mostra, ma anche La mal’ombra, Magari le cose cambiano, Come l’uomo sulla terra) esordisce nel lungometraggio raccontando una storia di accoglienza (una delle tante di questa Mostra). Lo fa con un tocco poetico, simpatico, sofferente, mantenendo lo sguardo documentaristico raffinato che lo spinge a rappresentare pescatori, Chioggia, la comunità cinese, quella chioggiana, una vicenda sull’attesa, sulla dignità del lavoro, sulla dignità in generale. Ottimo cast (Serbedzija, Paolini, Battiston). Fotografia di Luca Bigazzi suggestiva. Immagini emozionanti. Film da vedere, sulla provincia ma universale. P.s. Le Giornate degli Autori vinte da Presunto colpevole, di V. Garenq, che non ho potuto vedere, ma di cui mi hanno detto bene. Magari lo fanno uscire…altrimenti è un Disperso.

Killer Joe, di William Friedkin (Concorso), di Friedkin. In vita mia, ho visto soltanto L’esorcista e mi aveva abbastanza impressionato (positivamente). Pare, secondo alcuni, che questa sia una grossa defezione e che io debba ricorrere ai ripari. Visto questo penso che di Friedkin, al massimo, recupererò Il braccio violento della legge perché ci lavora Gene Hackman. Faccio lo snob, ma ho altre urgenze e debiti cinematografici più impellenti. Non ho tempo da perdere, insomma. Precisazioni a parte, Killer Joe è un film divertente, con cinque personaggi piatti (attori bravi a rimanere piatti).
La storia: un killer sadico (M. McConaughey) è assoldato da una famigliola a secco di soldi composta da: un figlio poco intuitivo (Emile Hirsch), una figlia stonata (Juno Temple), un padre troglodita (Thomas Haden Church) e una matrigna platealmente sgualdrina (Gina Gershon). Il killer deve far fuori l’ex moglie del padre troglodita, madre del poco intuitivo e della stonata, perché tanto è una drogata, così poi si può riscattare l’eredità. Il piattume diventa pattume in fretta e nel finale tocca livelli estremi di crudeltà. Ma si tratta sempre di finzione estrema, con la quale Friedkin sembra divertirsi. Il film regge, diverte (lo ripeto), e ha una bella battuta: “i tuoi occhi fanno male”. La dice la stonata.

L’ultimo terrestre, di Gian Alfonso Pacinotti (Concorso). Fumettista di successo e buon regista di cortometraggi, Gipi (è il suo nomignolo) esordisce nel lungometraggio. E lo fa giocando con un genere tosto, pericoloso, rischioso, come la fantascienza (nota: a quando risale l’ultimo film di fantascienza italiano? In questa Mostra anche L’arrivo di Wang dei Manetti Bros affronta un tema simile). Gli alieni si vedono, il film funziona perché spesso è divertente e perché racconta il reale e il presente in modo originale e convincente, cioè squallido (i cattivi, i malvagi di questo film sono molto credibili e molto volgari, come nella realtà). C’è una scena (l’aggressione al trans) che prende allo stomaco (uomo o bestia non cambia, ti ritrovi come spazzatura, solo, sull’asfalto), dove lo spettatore è coinvolto e sembra essere un personaggio del film. Il migliore italiano in Concorso (e questo la dice lunga, forse era più giusto “piazzarlo” altrove, ma a quanto pare c’è crisi).

Totem, di Jessica Krummacher (Settimana della Critica). Dalla Germania, film d’autrice d.o.c., sperimentale, astratto, duro. Il risultato è per certi versi esagerato, senza mezze misure nei confronti dello spettatore. Sofferente e dimenticabile.

L’Hiver dernier, di Joe Shank (Giornate degli Autori). Dagli Usa, classe 1977, ma studia a Bruxelles, esordisce nel lungometraggio con un film che riflette lo stretto legame tra terra e lavoro. Al centro della vicenda troviamo la scelta di Johann che ha rilevato la fattoria del padre e che deve fare i conti con la difficile realtà economica. Oltre alla tematica del lavoro è interessante come viene raccontato il lento e doloroso distacco dalla terra.

Life Without Principle, di Johnnie To (Concorso). To, regista cult, che ultimamente rischia di diventare scult, realizza un film diviso a metà: curioso e noioso. Tre vicende si intrecciano (come succede nel cinema di To, praticamente sempre) nel giorno della “bolla speculativa” legata alla Grecia. La crisi colpisce tutti: giovane impiegata, poliziotto, moglie del poliziotto, anziana, sicario del boss. Il problema del film sta all’inizio: oltre alla pazienza serve una laurea in finanza per farsi coinvolgere. Poi il film và, ma è troppo tardi. Annaspa, soffoca, balbetta, ogni tanto si riprende. Ogni tanto.

Texas Killing Fields, di Ami Canaan Mann (Concorso). Un bel thriller-action-noir, con tre buoni personaggi (interpretati da Sam Worthington, Jessica Chastain, Jeffrey Dean Morgan) e l’ottima Chloe Grace Moretz (che vedremo con Scorsese e Burton). Delitti efferati, crisi di fede, atmosfere cupe, inseguimenti sbagliati, sparatorie, colpi di scena e un finale che fa vibrare. Quel “sei pronta?” suona come un avvertimento, tanto umano quanto spietato, in un mondo senza certezze. Secondo film per la figlia di Michael Mann (che qui produce), il primo del 2001 s’intitola Morning e in Italia è un Disperso. Texas è pieno di umanità e di imperfezioni, pallottole, criminali, pugni chiusi che però fanno sentire il film pulsante.

La Clè des champs, di Claude Nuridsany, Marie Perennou (Fuori Concorso). La coppia di registi di Microcosmos racconta una favola bucolica con protagonisti due bambini, uno stagno e i suoi animali. Poetico e romantico e ai bambini piacerà

Faust, di Alexandre Sokurov (Concorso). Un film enorme. Talmente enorme che io non riesco (non posso, non ce la faccio!) a trattenere, a contenere, a chiudere. Per cui sarò come un fiume. È stata una visione appagante, inquietante, bruciante, spaventosa e faticosa in cui ho percepito l’esigenza di “fare cinema”, di raccontare, di esprimere, di indagare l’animo umano. Faust di Sokurov, conclusione della sua personale tetralogia sul potere dopo Moloch (su Hitler), Taurus (su Lenin), Il sole (su Hirohito), è un viaggio dentro la conoscenza, il dubbio, l’oscurità, la scelta. A fianco del Male. Che inizia arrivando dal cielo, con un specchio, prosegue con inquadrature sghembe, distopiche, malvagie e spezzate, altre talmente luminose che sembrano d’oro, e finisce con la terra che ribolle, con l’acqua che esplode, con le mani degli esseri umani feroci che strappano e tirano e sembra che mordano, con urlo che arriva dal profondo. Non è questo il Cinema che mi rappresenta, ma è un Cinema che mi ha fatto voglia di scoprire, di entrare nell’immagine, di seguire la visione. Scusate l’esplosività esagerata del pensiero.

Aspetto e spero i premi. Ma sarò già a casa, dove mi aspettano e sperano. Dove aspetto e spero. Altro.

Non c'è ancora nessun commento.

Lascia un commento!

«

»