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cultura dell'immagine e della parola

Aspetta e spera
31 agosto 2011

Paul Giamatti sul red carpet di The Ides of MarchRiapro gli occhi sulla Mostra, nonostante una certa pigrizia, e mi rendo conto che qui (anche qui, soprattutto qui), avere un obbiettivo serve per tre motivi: ti fa sentire meno solo, affronti le code con più serenità, fai di tutto per non andare alla deriva (oggi mi vien da chiamarla “deriva morale”). Ho atteso questo momento e sperato a lungo perché dalla Mostra ne sono uscito sempre con gli occhi gonfi (e il gonfiore, a volte, è rimasto tale per tutto l’anno). Ho atteso e sperato anche i rischi, le rotture e i fallimenti (che da qualsiasi punto si guardano, comunque temprano) che hanno a che fare con questo evento italiano (per certi versi ancora misterioso – vedi il preapertura). Attendo i film, i veri protagonisti di questa Mostra, il mio obbiettivo. Per le sorprese c’è sempre spazio, ma gli obbiettivi si devono scegliere, non capitano.

Finora, a parte un materasso molle e deforme, la Mostra in pieno trambusto (e la zona del palazzo del Cinema ricorda un deserto che nasconde segreti e bugie) è stata clemente perché mi ha già mostrato un film bello e atteso (The Ides of March, di Clooney) e un film che dimenticherò in fretta (Love and Bruises, di Lou Ye) e ho scoperto che “bruises” in inglese significa “ammaccature” o “lividi” e che alla fine della Mostra (oltre ad un corso intensivo di inglese e di spagnolo), penso che di ammaccature ne conterò e spero che ogni ammaccatura, ogni livido provocato dai film, possa rigenerarmi e riesca a dirmi qualcosa di diverso, di nuovo, di importante, di decisivo. Aspetto, quindi, i film ammaccatura e spero che lascino il segno.

The Ides of March (oltre all’onere/onore di far voltare pagina alla Mostra ancora scossa dalla stranezza Box Office e oltre ad aprire il Concorso ufficiale) è un bel film, ben fatto, ben recitato, ben diretto (conseguenza inevitabile del feeling tra Clooney e Grant Heslov). Quando il divo George parla, chiacchiera, racconta il suo film, fa il serio ma sembra che non si prenda mai sul serio; quando si veste da autore, quando fa il cinema e quando dirige altri attori (questo cast è eccezionale: da Ryan Gosling a Philip Seymour Hoffman, da Paul Giamatti a Evan Rachel Wood fino a Marisa Tomei), interpreta un ruolo ancora più intrigante, più elegante, più brillante. Ricorderò il suo film per come ha scelto di raccontare la crisi contemporanea, che prima di essere di qualche altro tipo è soprattutto umana (quindi la politica è un pretesto godurioso per una sceneggiatura goduriosa). Riguarderò il suo film concentrandomi su come e quanto relazioni così complesse e ambigue che ambiscono, tutto sommato, ad un bene più grande (la lealtà, la sincerità, la verità) subiscano lentamente e vorticosamente gli influssi degenerativi del male (si assiste, di fatto, ad una sorta di metamorfosi del fascino). The Ides of March, inoltre, conferma che quello di Clooney è un cinema che non si accontenta di rappresentare e inseguire la verità perché è un tipo di cinema che tenta di esplorare attraverso il giocatolo cinema le ombre e le insidie della libertà umana, le ambiguità della realtà, le trasformazioni dell’uomo. Ides of March è un thriller morale (Clooney cita Wall Street di Stone come esempio, ma non è troppo distante anche dal recente The Ghost Writer di Polanski o, perché no, da Le vite degli altri di Von Donnersmark), ricco di colpi di scena che gioca con le regole del genere trasformando l’essere umano in una creatura cinica, avvolta dal male del potere e dell’egoismo. Ma la deriva alla quale partecipiamo non è la realtà che è certamente molto più amara, avida, spietata e molto meno spettacolare. Il film ogni tanto sembra dimenticarselo e pare ammiccare con lo spettatore quasi compiacendosi. Il livido c’è, non si discute, si sente e si vede. Ma penso passerà in fretta.

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