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Una coraggiosa lezione di democrazia

Una coraggiosa lezione di democrazia

La morte del sedicesimo presidente degli Stati Uniti, Abraham Lincoln, è ben nota ai più: nel 1865 un colpo di pistola, sparato dalla mano di John Wilkes Booth, uccideva colui che aveva “abolito la schiavitù” in quelli che saranno i futuri Stati Uniti. Meno noto, almeno al di fuori dei confini americani, è che quell’omicidio fu l’acme di un complotto ordito da vari personaggi, tra cui una donna, Mary Surratt, il cui processo è il soggetto principale dell’ultimo film di Robert Redford. Un film, The Conspirator, impostato secondo i dettami del legal thriller: vi è un reato gravissimo, due brillanti avvocati che si combattono senza risparmiarsi, l’enorme attenzione del pubblico e dei mass media sul caso. E tale si limiterebbe a essere se dietro la macchina da presa vi fosse un diverso regista; Robert Redford, invece, ricostruisce uno dei momenti più dolorosi della storia degli Usa per spronare gli spettatori a riflettere su temi che vanno di là dalla semplice ricostruzione storica e di là dei meri confini americani. Vera protagonista del film, infatti, non è Mary Surratt, non il suo processo, bensì la democrazia, il diritto, il rapporto tra la legge e la ragion di stato. Quest’ultima, infatti, vuole la testa dei colpevoli, a prescindere dal loro reale grado di colpa; vuole dare alla folla forcaiola un pasto su cui sfogare la propria furia; vuole, in nome del popolo, contraddire quei diritti che lo stesso popolo si è dato a propria garanzia. Contro la ragion di stato, la legge, che rivendica per questa donna il diritto a essere giudicata innocente sino alla confutazione di ogni ragionevole dubbio; che porta avanti la ratio della società civile anche in un contesto dominato dal pugno di ferro della forza militare; che vuole anche per una donna ingiusta una giusta sentenza.

Frederick Aiken è il simbolo di questa lotta alla base della democrazia. Il suo ruolo di avvocato difensore, inizialmente, si contraddice con la sua convinzione circa la colpevolezza di Mary Surratt. A questa contraddizione, interna all’animo del giovane, corrisponde una contraddizione più grande, macroscopica: Mary, civile, viene giudicata da un tribunale militare; Mary, innocente sino a prova contraria, viene giudicata da una corte che ne ha già stabilito la colpevolezza. Mentre queste macro contraddizioni si fanno sempre più intollerabili, l’animo di Frederick va incontro a un processo di equilibrio, un equilibrio che sortisce dalla consapevolezza che è il diritto che dovrà essere vincitore alla fine del processo. Prima ancora del paese, prima ancora del popolo che chiede la vita della donna. Perché solo il diritto, apparentemente meno giusto di una giustizia che segue le logiche della vendetta, può permettere a un intero popolo di definirsi civile, può permettere a un paese di definirsi democratico. Frederick, con la sua giovinezza e le sue contraddizioni, rappresenta la grande storia della democrazia americana. Una democrazia che pone innanzi a sé, sempre e comunque, il rispetto del diritto e quindi degli uomini. Il ministro della guerra Edwin Stanton (interpretato da Kevin Kline) rappresenta invece il lato oscuro della democrazia americana: quella democrazia che si ritiene possa essere imposta con la forza, che scende a patto con i giochi di forza, che pone innanzi ai diritti del popolo il potere del popolo, che appare a volte più buona, più giusta, ma che si rivela in realtà fonte di colpevolezza al pari delle colpe che essa stessa condanna.

Se Frederick è simbolo delle leggi scritte del diritto e Stanton simbolo della ragion di stato, Mary Surratt incarna le leggi non scritte degli uomini. Quelle che portano una madre a voler salvare a tutti i costi il proprio figlio, quelle che con il diritto e la ragion di stato non hanno nulla a che fare. Mary è una piccolissima pedina finita su una scacchiera dove si combattono due concetti universali, contro cui contrappone la sua dignità di donna e il suo affetto di madre. Sentimenti che non possono che essere schiacciati dall’una e dall’altra forza in campo, facendola risultare comunque perdente, a prescindere dall’esito del processo. La sua compostezza di fronte alle accuse che le vengono mosse non deriva da una forza laica, bensì religiosa, e volutamente Redford la rappresenta quasi come una mater dolorosa dell’iconografia cattolica, che porta su di se i peccati di cui suo figlio non ha voluto farsi carico. The Conspirator è dunque, prima di tutto, una vera e propria lezione di democrazia, un viaggio a ritroso nel tempo sino al momento in cui questa creatura della Costituzione americana è diventata un essere a due teste, Giano bifronte che può alternare alla legge la forza. Una lezione che Robert Redford vuole aiuti a riflettere noi uomini del ventunesimo secolo, forse più che mai confusi su quello che è veramente il fondamento del nostro vivere civile.

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