Teheran odia: la polizia può sparare
Viaggia su e giù per le congestionate arterie della capitale, su una macchina verde che fa molto anni Settanta e un fucile da caccia sul sedile posteriore, la nuova coscienza critica dell’Iran: The Hunter (2010) di Rafi Pitts, in concorso a Berlino nel 2010, si inserisce nel filone dei vari Ghobadi e Panahi; ma lo fa con un anti-eroe lontano dallo spirito passionale delle proteste giovanili e con una storia che lavora per sottrazione, asciugando il testo filmico e sfiorando, a tratti, l’atemporalità.
Interpretato ottimamente dallo stesso Pitts – costretto a sostituire all’ultimo momento il protagonista – Ali è da poco uscito di prigione e divide la sua vita tra famiglia, lavoro di guardiano notturno e passione per la caccia. La drammatica morte della moglie e della figlia, rimaste accidentalmente uccise in una sparatoria in strada, lo trasformeranno da cacciatore a preda, in una fuga nei boschi che avrà un beffardo quanto crudo finale. Il ‘giustiziere’ di The Hunter non è l’ennesimo uomo qualunque vittima di un giorno di ordinaria follia ma un eroe antonioniano: impassibile di fronte all’assurda casualità della morte, quasi che ogni volta sia l’arma da fuoco a decidere dei destini, non certo chi guarda nel mirino. Le esplosioni dei proiettili irrompono nel bel mezzo del silenzio e si riverberano nella scena successiva, lasciando spesso e volentieri fuori campo le vittime. Rafi Pitts sceglie un approccio neo-realista, riduce al minimo i dialoghi, spoglia lo sguardo di qualsiasi spettacolarità e utilizza il campo lungo come artificio per intensificare i silenzi. La divisione della pellicola in due grandi momenti (la cui cesellatura è il riconoscimento dei cadaveri all’obitorio e il successivo tiro al bersaglio che Ali fa su una pattuglia della polizia in autostrada) è solo a livello diegetico: l’asettica città e le sue brulicanti arterie, fotografate con ampi totali e per le quali il ‘cacciatore’ si aggira, è semplicemente l’altra faccia dei boschi dove andrà in scena il gioco a tre con i due soldati sulle tracce del fuggitivo. L’apparente contrasto fra caos e solitudine esistenziale si risolve nel costante senso di spersonalizzazione di luoghi e persone. «Chi non ha problemi con questa polizia? Quello che ti è successo sarebbe potuto accadere a chiunque…» confessa ad Ali uno dei due militari.
Allora non fa nemmeno più differenza se indossi un’uniforme o meno. Tutti quanti, cacciatori e cacciati, sono a loro modo prigionieri di un regime che ripete il suo mantra alla radio, attraverso la voce dell’Ayatollah Khamenei, e alla tv («Chi è l’unico che ti prega all’inferno, mio Signore. Chi è?»). La forza/limite dell’opera di Pitts è l’astrazione della vicenda che rende ovattato il messaggio politico ma, assieme, lo eleva al di sopra delle umane miserie e contingenze temporali. Solo così si spiega l’immagine con cui si apre The Hunter, un celebre scatto di Manoocher Deghati che il movimento a spirale della macchina da presa rivela a poco a poco: nel primo anniversario della Rivoluzione iraniana, un gruppo di pasdaran in motocicletta sta passando sopra una bandiera degli Stati Uniti disegnata per terra. Correva il 1983. Ma oggi, a distanza di quasi trent’anni, fa qualche differenza?
Curiosità
Il film è dedicato alla memoria di Bozorg Alavi (1904-1997), scrittore e intellettuale iraniano morto in esilio in Germania: da uno dei suoi racconti – L’uomo di Gilan (1952) – Pitts avrebbe tratto ispirazione per il soggetto del film.
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