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Priest: Tamarri da un far west futurista

Tamarri da un far west futurista

Una precisazione, anzi, un avvertimento è d’obbligo: chi si accosti a questo film pensando (e sperando) di vedervi la trasposizione del celebre manhwa di Hyung Min Woo rischierà una colossale delusione. Perché con il famoso fumetto coreano il film di Scott Stewart ha in comune solo il nome, sebbene pare che il primo ne sia stato, in qualche modo, ispiratore. Se ciò fosse vero, si può ben dire che tale ispirazione non ha dato luogo ad alcun risultato concreto e che le due opere, oltre il nome e l’ambientazione nel selvaggio west, non hanno in comune assolutamente nulla. Il concetto di “nulla” risulta però fondamentale per chi voglia accostarsi criticamente a questo film, proprio perché risulta essere l’unica categoria concettuale a cui sembra che regista e sceneggiatore abbiano attinto e, a conti fatti, proprio perché risulta essere l’unica sensazione che rimane allo spettatore una volta concluso il film.

Un film, quello di Stewart, che non finge nemmeno di sforzarsi ad offrire qualche elemento di originalità. La trama è imperniata sulla ormai trita e ritrita lotta tra umani e vampiri; i personaggi si reggono in piedi non grazie ad una storia che dona loro carne e anima, ma in quanto sagome di altre storie già viste e già sentite, caricature di cui lo spettatore può intuire persino il minimo cambiamento di espressione e la più breve delle battute (cose, queste ultime, davvero non difficili, vista l’esiguità delle espressioni facciali e la pochezza delle battute di Bettany & Co); le esplicite citazioni da altri film (da Blade Runner alla saga western di Sergio Leone), più che essere chicche per cinefili e spettatori attenti, sono così sfacciate e gratuite da risultare scontate.

Qualcuno potrà pur obiettare che tutti questi sono difetti comuni ad altri film in cui a far da padrone è lo spettacolo e non la storia in sé; eppure Scott Stewart, pur avendo a disposizione l’ormai inflazionato uso del 3D (il cui utilizzo risulta essere inutile nove volte su dieci) e una storia che ben si presta a scatenare almeno la creatività dell’elemento visivo, riesce a banalizzare anche la dimensione spettacolare. I costumi sono anonimi quanto e più dei personaggi; le armi non colpiscono per la fantasia del loro design e le motociclette utilizzate sono delle vecchie carrette a cui è decisamente mancato il tocco magico di Darren Gilford, le cui moto di puro design della luce hanno costituito l’unica, vera attrazione di un film dalla storia deboluccia quale è stato Tron Legacy. Persino nel concepire il simbolismo di Cathedral City, la città dominata dal potere dittatoriale della Chiesa, c’è stato un impegno concettuale e visivo pari allo zero. Ed è proprio questa, forse, la “colpa” più grave di Priest: non il suo essere un film banale e stereotipato sino al ridicolo, quando nel non essere riuscito ad essere l’unica cosa a cui poteva ambire, ovvero ottantasette minuti di mero spettacolo fine a se stesso, dove lo spettatore, pur spegnendo il cervello, avrebbe potuto rifarsi gli occhi gustando combattimenti in barba alle leggi di gravità, corse su veicoli capaci di scatenare la fantasia dei collezionisti di action figure e non, armi scaturite dalla fantasia di folli designer, mostri capaci di far concorrenza alle orribili creature di HR Giger (al massimo, i vampiri risultano essere la brutta copia dello splendido mostro ammazza bambini che compare in Il labirinto del fauno di Guillermo del Toro). Ciò che tocca allo spettatore, invece, sono le solite pose alla Matrix, qualche scaramuccia tra tamarri vestiti da cowboy (o meglio ancora, tra mandriani vestiti da tamarri) e un’ora di vano, impari combattimento contro la noia e il sonno.

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