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Dopo il crepuscolo, la luna di sangue

Dopo il crepuscolo, la luna di sangue

Catherine Hardwicke sembra non essersi ancora sdoganata dal suo primo e unico capitolo della saga di Twilight, da cui pesca a piene mani senza vergogna: ci sono il triangolo amoroso, le atmosfere dark sullo sfondo di un debole thriller dalle sfumature horror e infine un amore adolescenziale non consumato. Che poi al posto di Kristen Stewart e Robert Pattinson ci siano Amanda Seyfried di rosso vestita e Shiloh Fernandez in tenuta da boscaiolo “medievale” poco importa: la forma, seppur moderatamente, cambia ma i contenuti rimangono quelli.

La Hardwicke, architetto e scenografo prima che regista, è abile nel ricreare l’atmosfera romantico-dark e a giocare sul contrasto di luci e colori, ma il suo è solo un trucco per nascondere l’evidente inconsistenza della trama. A risollevare il film non contribuiscono le scarse prove attoriali: la Seyfried sembra sempre fuori tempo (forse che anche lei non sia sicura al cento per cento della bontà del progetto?); Gary Oldman, religioso alquanto ambiguo, è una caricatura delle sue passate interpretazioni; Virginia Madsen, nel ruolo della madre della protagonista Valery, non brilla certo per espressività e Billy Burke, il consorte, è di una sciatteria allucinante, lui che di lune sgangherate, vampiri e licantropi ne ha visti a frotte (suo il ruolo del padre di Bella nei vari sequel di Twilight). Inadeguata anche la scelta della fiaba di Cappuccetto rosso, che è stata scomodata solo per fornire il pretesto di tirare in ballo il lupo, utile qui per imbastire l’ennesima storiella romantica d’atmosfera, di quelle che vivono di sensazioni, ma che sono parche di emozioni. Diventa determinante stabilire allora a quale pubblico il film sia volutamente destinato. Perché, dopo il successo di Twilight e visto l’ammiccamento al mondo adolescenziale da parte della regista – suo Thirteen – Tredici anni, scritto a quattro mani con una tredicenne – l’errore di lettura è forse da imputare a un certo tipo di spettatore, piuttosto che al film stesso. Mostriamolo al giusto target e forse questo concentrato di desideri repressi, sospetti irrazionali e bellocci dal cuore gentile si tramuterà in un capolavoro! Sia chiaro: dal punto di vista strutturale la pellicola non è salvabile, non essendo né solida né dotata di una giustificata progressione logica. La confusione, il dubbio, il sospetto regnano sovrani: sono utilizzati come artificio drammatico per generare depistaggi infiniti che risultano estenuanti per lo spettatore, ma sono anche un marchio di fabbrica intrinseco al film, che finiscono, però, per tradirne l’architettura narrativa. Il colpo di scena finale, sbrigativo e asfittico, castrante e semplicistico, ne è la dimostrazione più eclatante: ciò che è sostanzialmente un deus ex machina risolve il dilemma amoroso di Valery, sentimentalmente legata al focoso Peter, ma promessa in sposa al più ricco eppur dolce Harry. In cosa consiste la scelta di Valery di non seguire il lupo se non in un banale rifiuto del male? La decisione vera e propria, valida nell’economia del film, Valery l’ha presa fin dall’infanzia, come mostra il flashback dell’opening e consiste nell’amore incondizionato per lo “straniero”, lo “sconosciuto”, un amore che non conosce limiti di spazio e tempo, ma nemmeno, come si vedrà, passione e dannazione.

Thriller di scarsa efficacia, favola romantica light e horror di bassa lega. Ma dell’originale Cappuccetto rosso di Perrault (dal finale tragico: anche Cappuccetto viene ingoiata dal lupo) e del classico dei fratelli Grimm cosa rimane? Poco, se non la celebre frase che la bambina dal mantello rosso dice al lupo travestito da nonna: “Nonna, ma che occhi grandi che hai!” “E’ per guardarti meglio, bambina mia!”. Peccato che le circostanze (un sogno falsamente premonitore) facciano anche di questa chicca un mero riempitivo per accontentare gli aficionados della fiaba. Insomma, dall’ammonimento iniziale della madre di Valery, che la esorta a non addentrarsi nel bosco e a stare alla larga dagli sconosciuti, fino al finale beffardamente “rivelatore”, Valery sembra sviluppare una diffidenza ossessiva nei confronti di tutti i membri del villaggio, tra i quali si nasconde il licantropo. Cosicché pare che fidarsi degli estranei e del proprio istinto sia meglio che affidarsi ciecamente a chi si conosce bene (lo evidenziato le frequenti soggettive di Valery che attestano l’incapacità visiva di discernere il subdolo dietro alle relazioni umane). Viste le dinamiche tra personaggi e il target adolescenziale prevalentemente femminile, ci si chiede se un titolo come Blood Moon, Luna di sangue, non sia più appropriato e meno fuorviante per il film: dopotutto siamo passati dal crepuscolo di Twilight alla Luna nuova di New Moon fino all’eclissi del terzo capitolo della saga. Ci mancava solo la congiunzione astrale della Luna “rossa” per chiudere il cerchio e incoronare la Hardwicke reginetta del nuovo teen-age fantasy, che sa tanto di feuilleton di serie B.

Curiosità
Il film ricorda nei contenuti e nella struttura (imperfetta) The Village di M. Night Shyamalan (2003). In entrambe le pellicole la storia si trascina oltre i limiti del credibile, fino a vacillare e a perdere del tutto l’equilibrio nel finale. Tutti gli abitanti del paesino di Daggerhorn sono interpretati da attori con occhi scuri o, in alternativa, da attori che, come Julie Christie, indossano lenti a contatto marroni.

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