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Sangue e risate facili

Sangue e risate facili

Diciamolo francamente: l’ultimo film di Zhang Yimou è prima di tutto un inequivocabile – e inquietante – segno dei tempi. Il fatto che il regista cinese più celebrato e talentuoso abbia scelto di “rifare” i fratelli Coen, i colleghi più cool dell’altra sponda dell’oceano, sia pure nella loro versione più antica e misconosciuta (quella di Blood Simple, l’opera d’esordio del 1984), dimostra che il sorpasso orientale sugli Usa, anche al cinema, è definivamente avvenuto: il vampirismo americano ai danni del cinema di “altri mondi” si ribalta, un po’ come i rapporti di forza tra i due paesi. Il problema del film, come per tutti i remake, era in partenza quello di emanciparsi dall’originale: Zhang ha fatto di tutto per aggirare il parallelismo, a cominciare dall’ambientazione trasportata in un’imprecisata Cina del passato, per continuare con l’accentuata stilizzazione e la modifica di alcuni snodi narrativi.

Anche l’atmosfera è radicalmente mutata rispetto al film del 1984: l’impianto di base resta quello di una black comedy, ma il filmaker cinese vira decisamente verso la farsa, aiutandosi con l’utilizzo di personaggi stereotipati ispirati ai classici della commedia dell’arte e con una serie di dialoghi ai limiti del grottesco. Malgrado ogni sforzo di differenziazione, tuttavia, l’opera di Zhang (e il titolo originale A Simple Noodle Story, in questo senso, era molto più azzeccato) resta indelebilmente “coeniana” nell’ispirazione di base: il modello della trama è il consueto paradigma dei due autori di Minneapolis, che vede un protagonista goffo e fuori contesto – in questo caso il pavido Li – impelagarsi suo malgrado in una serie di avventure tragicomiche, originate da fattori incontrollabili e da un destino beffardo. E la battuta conclusiva del personaggio, che prima di morire sussurra un “forse qualcosa ho sbagliato”, la dice lunga su quanto questo meccanismo sia stato rispettato anche nell’adattamento.

Per il resto, come detto, l’impronta di Zhang è visibilissima dal punto di vista stilistico: la prima scelta che salta all’occhio è quella di identificare ciascuno dei personaggi con un colore, rutilante e sgargiante (dal rosa di Li all’azzurro del “servo sciocco” che finirà per assumere un ruolo centrale nella vicenda), quasi ad accentuare il loro carattere di “maschere”. Il tutto sullo sfondo di un panorama lunare, un deserto rosso e surreale che ricorda molto da vicino la Death Valley. Come se non bastasse, il regista abusa senza ritegno di effetti visivi: carrellate, zoom, soggettive, grandangoli, riprese a volo d’uccello, ralenti e soprattutto riprese velocizzate. Un accumulo che va a un passo dal risultare stucchevole, ma l’autore di Lanterne rosse è una vecchia volpe e sa esattamente quando fermarsi. E lo stesso vale per l’interpretazione degli attori, certamente sopra le righe ma mai istrionica: svetta su tutti l’ottimo Sun Honglei nel ruolo del soldato-killer. Certo, per i fan di Zhang Yimou sarà difficile trattenere un po’ di rimpianto nel vederlo ormai perfettamente allineato a temi e ambientazioni “di regime” e concentrato su prodotti di puro intrattenimento. Ma anche questo, manco a dirlo, è un segno dei tempi.

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