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Il destino che incombe

Il destino che incombe

Non c’è nulla di male nel girare un film “a tesi”, e tantomeno nel voler condannare una duplice indegnità: la spietata repressione del regime iraniano nei confronti degli omosessuali e l’indifferenza dell’Occidente nei confronti dei profughi. Ma le buone intenzioni, nel film di Hakkar, finiscono purtroppo per essere tradite dal risultato: troppo allegorica e distaccata per appassionare al tema, troppo intimista e dolente perché si possa creare una vera empatia tra lo spettatore e i personaggi, la pellicola – presentata tra l’altro al Sundance – resta in fin dei conti a mezza via tra il dramma sentimentale e la denuncia sociale, senza riuscire a convincere pienamente in nessuno dei due aspetti. Peggiora le cose la chiusura (non sveliamo nulla, ma il finale è facilmente prevedibile), che appare decisamente forzata e arbitraria e dà un sapore schematico e artificioso a tutto quanto visto in precedenza.

Quello che il film riesce a comunicare davvero bene è l’atmosfera di sospensione in cui i due personaggi, fuggiti dall’Iran attraverso l’Italia (si intuisce) per approdare infine in Francia, si trovano a vivere la loro avventura da clandestini. L’intera vicenda, concentrata in poche ore, si svolge in effetti in un clima irreale, quasi da sogno, ma sarebbe meglio dire da incubo visto il senso di oppressione e di disagio che tutte le scene emanano. Anche nei momenti più paradossali e, tutto sommato, persino comici generati dalla situazione assurda in cui i due personaggi si vengono a trovare (si veda Mohsen che nasconde l’amante in soffitta per non rivelare la sua omosessualità), non c’è l’ombra di una distensione, anzi si respira un turbamento quasi palpabile. Il tutto è amplificato dalla figura addolorata del giovane protagonista, chiuso in un mutismo pressoché totale e in una serie di sguardi vuoti e apparentemente ottusi, che se da una parte rendono alla perfezione lo spaesamento di un emigrante senza meta, dall’altra precludono allo spettatore ogni possibile identificazione.

Del resto i simbolismi del film risultano più di una volta del tutto oscuri: non si comprende la valenza della figura del suicida che i due viaggiatori incrociano proprio in apertura, né tantomeno la natura del “tradimento” di Mohsen nei confronti del giovane compagno (spinto dal calcolo, dal desiderio o da una sorta di autopunizione?). Da un’opera che, con i suoi ritmi lenti e compassati, i suoi lunghi silenzi e le ambientazioni cupamente ordinarie, chiede già così tanto allo spettatore, ci si aspetterebbe perlomeno maggiore chiarezza nell’individuazione dell’oggetto. Così come sono, il film e il suo finale lasciano decisamente amareggiati e perplessi: forse in parte è un effetto voluto, ma di certo l’argomento avrebbe meritato una trattazione più forte e coinvolgente.

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