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Il dramma del dubbio in Vaticano

Il dramma del dubbio in Vaticano

Cinema è business. Niente di più vero se si pensa quanto il trailer del film Il rito sia riuscito nell’intento di caricare le aspettative dello spettatore, stuzzicato ad andare al cinema per vedere un altro film del filone demoniaco da fare accapponare la pelle. Peccato che i trailer (e la stampa) siano spesso fuorvianti, retti come sono dal meccanismo commerciale che impone di rendere quanto più appetibile il prodotto pubblicizzato. Ecco quali sono i fatti: Il rito non è l’ennesimo L’esorcismo di Emily Rose (Scott Derrickson, 2005), tanto meno una rivisitazione del capostipite di Friedkin, L’esorcista (1973).

Il rito focalizza la sua attenzione sulla cultura dell’esorcismo all’interno della Chiesa Cattolica, ma ancor più sul rapporto tra i personaggi e la fede. Non è un film che pone al suo centro le vittime di possessione e il trabocchetti del Diavolo. Tant’è che gli esorcismi spettacolari nel film non sono molti. Probabilmente colpisce solo quello eseguito nei confronti di un’adolescente incinta, la cui zia è interpretata da Maria Grazia Cucinotta. In effetti, si tratta sempre di un terrore generato nel pubblico dall’aspettativa di vedere qualcosa di ben più tremendo nel corso del film, cosa che poi non avviene. Certo, uno dei motivi può sicuramente essere l’innalzamento della soglia di paura dello spettatore, ma il problema vero è che il film è tutto giocato su – passatemi il gioco di parole – attese “disattese”. Questo non perché la storia non funzioni o perché il regista non sia stato in grado di confezionare un buon film. Il suo errore, se così si può definire, deriva piuttosto dal fatto di avere voluto inscatolare, in fin dei conti, una storia seria di formazione con tanto di mentore all’interno di un genere horror ben codificato. Il risultato è che il pubblico, spaesato, ne rimane scontento. Una situazione similare – ma all’interno di una confezione assai mediocre – si ritrova nel recente Camp Hope (George VanBuskirk, 2010). Insomma, se si vuole girare un film che riguarda le possessioni demoniache, si possono intraprendere due strade: o renderlo il più angosciante, tetro e disturbante possibile oppure farne un veicolo di indagine dei misteri più reconditi e più spiacevoli della Chiesa. Mikael Håfström decide, invece, di puntare sulla rappresentazione dell’esorcismo per come è nella realtà: un credo della dottrina cattolica che diventa professione. L’esorcista viene, così, riproposto come un medico dello spirito. E la demistificazione dell’esorcismo è straordinariamente resa nella scena in cui padre Lucas, interpretato da un Anthony Hopkins all’incrocio tra il maggiordomo Stevens (Quel che resta del giorno, James Ivory, 1993) e Hannibal Lecter, risponde al cellulare, mentre sta praticando il rituale su una giovane donna.

La rovinosa tentazione in cui cade il regista, in realtà, è quella di ricorrere ad un finale a effetto, vagamente inquietante, ma più che altro emulativo e di utilizzare gli clichè del genere horror a ogni piè sospinto: il parlare in lingue sconosciute, il contorcersi fino allo spasmo, le voci gutturali e le espressioni forti (eventi, per altro, ritenuti rari, ma sempre e comunque possibili, dalla Chiesa), cliché che hanno il difetto di scontrarsi contro il muro di un pubblico ormai insensibile ad essi. Certamente si poteva fare di meglio, ma pensare di potere discutere in un film di due ore scarse del dilemma della fede, delle prove circa l’esistenza del diavolo e delle debolezze dell’uomo nei confronti del male, è un’impresa un po’ troppo ambiziosa.

Curiosità
Il film è tratto da Il rito. Storia vera di un esorcista di oggi, un libro semibiografico del giornalista Matt Baglio.

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