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Bianco come il latte

Bianco come il latte

Nel suo appassionato e appassionante romanzo d’esordio Bianca come il latte, rossa come il sangue – uno dei più interessanti editoriali italiani degli ultimi mesi – il giovane Alessandro D’Avenia presenta il bianco come il colore della paura, dell’assenza, dell’ansia. Chissà che cosa penserà lo scrittore di questo film, considerato che qui, come nel suo romanzo, le tonalità cromatiche degli oggetti, dei pensieri e delle scelte dell’uomo spesso coincidono proprio con il bianco. E non solo perché il bianco è latte e scorre fluente. Il gioiellino di Andrea Molaioli (opera seconda del regista che ha imparato il mestiere da Moretti, Mazzacurati è Luchetti) è un film sul bianco, per contrasto e somiglianza, per paradosso e spirito critico, per finzione e realtà. Solo dopo aver attraversato questa strada, solo dopo aver superato questo primo livello della messa in scena, dopo aver considerato questo impianto duplice e paradigmatico, si può inquadrarlo pure come un film che racconta una storia (molto) ispirata alla realtà. Molaioli ci narra una storia che rimanda a qualcosa di realmente accaduto. Sceglie la prudenza del racconto, senza rinunciare ai rischi, senza privarsi del coraggio della messa in scena, virando verso un’installazione drammatica, dal ritmo frenetico e con un impianto morale ambiguo. Il tutto orientato verso un finale inevitabile. Il suo film ha un impianto vorticoso: sparge indizi, lascia ad intendere, assembla pezzi di cronaca, rimanda ad ambientazioni, evoca situazioni. Fin dalle sequenza iniziali, Molaioli sembra suggerire una linea interpretativa, proponendo un percorso rappresentativo e universale che potrebbe valere per qualsiasi fallimento di qualsiasi grande azienda, pur riferendosi implicitamente (ma neppure troppo) al tracollo finanziario di Parmalat e al fallimento di Calisto Tanzi. Già dalla scelta del nome del protagonista si intuisce in che direzione vada lo sforzo della ricostruzione della finzione: Calisto diventa Amanzio, Parmalat diventa Leda (acronimo di Latte E Derivati Alimentari).

Si apprende progressivamente – poiché si assiste ad uno spettacolo in cui il fallimento prende corpo anche grazie all’effetto suspense – che lo sguardo di Molaioli è puntato principalmente sull’uomo, sulla natura delle sue scelte, sugli atteggiamenti spregiudicati e sprezzanti che hanno trasformato i successi della Leda in fallimenti inesorabili. Prendono così forma, grazie alla forza di un “cinema di periferia”, quell’inquietudine, quell’ansia, quella perversione che schiantano l’uomo nel nero più oscuro dei suoi pensieri (Girone e Servillo mostrano questa involuzione inesorabilmente, il primo senza nascondere le sue tante contraddizioni, il secondo senza nascondere le proprie abilità ma anche i propri limiti). Quello di Molaioli è “cinema periferico” nel senso che decentralizza l’attenzione dello spettatore dalle aspettative della forma alle conferme della sostanza cinematografica. Sposta l’attenzione dalla mera esigenza di cronaca, che solitamente coincide con una sorta di perversione dello sguardo, ad una più nobile e ambiziosa esigenza di sguardo penetrante, in grado di andare oltre e di scendere nel profondo dell’uomo. Il cinema di Molaioli, e quindi anche e soprattutto Il gioiellino, è un cinema sul mistero, sulla paura, sulle debolezze e la vulnerabilità dell’uomo. Un cinema che ruota intorno alla luce del mistero, rendendola affascinante perché ne mostra il suo lato più ingannevole: le sue ombre. Un cinema capace di mostrare l’ignoto nascondendolo, di evidenziare le angolature, smussandole, di aggiungere particolari, sottraendoli alla natura di “fatto”, alla forma di “notizia”. Seguendo questa prospettiva, Il gioiellino (di nome e di fatto, ma il titolo fa riferimento al nomignolo utilizzato da Rastelli per la sua “creatura”) amplifica quanto già rappresentato in La ragazza del lago (un film di genere che spostava l’attenzione dal “caso poliziesco” al corpo, dal crimine alle motivazioni, scostandosi nettamente dall’antropologia televisiva, certamente più riconoscibile e certamente di più facile/immediata immedesimazione per uno spettatore). Questa profondità conferisce all’opera di Molaioli una purezza metalinguistica (nel primo film si rifaceva ai buoni del film, nel secondo alle buone intenzioni di alcuni, diventate cattive inclinazioni, e soprattutto al latte come simbolo di bontà) che si concretizza in virtù di una dichiarata rinuncia all’immediata immedesimazione.

Molaioli sceglie la strada (dura) della finzione e della narrazione non documentaristica, privandosi di qualsiasi effetto scenico roboante, evitando di cadere in certi tranelli giustizialisti e colpevolisti virando verso una ricostruzione più pulita, asciutta e compatta, dove la ricostruzione degli eventi passa attraverso il nascondimento degli elementi meno rilevanti per il senso del racconto (non vediamo il corpo di Filippo Magnaghi dopo il suicidio, non entriamo nella stanza in cui avviene il colloquio con Berlusconi). Non vediamo ma intuiamo. Si spiega così la scelta, coerente, di un titolo così poco esplicito, che forse farà pagare al film un po’ di emarginazione nelle sale. Bianco latte, ma anche bianco vuoto. Come una pagina bianca, incompleta, senza contenuto, senza idee. Bianco, come lo sfondo di una pagina su cui scorre fluente inchiostro nero. Così finisce Il gioiellino: nero su bianco. Nero come un punto. Che serve per chiudere una frase, oppure per collegare una storia di finzione alla realtà.

Curiosità
Prodotto da Indigo Film e Babe Film, case di produzione anche, tra gli altri, di film di Sorrentino, Crialese, Luchetti, Placido, Capuano. In occasione dell’uscita nelle sale del film è stato creato il sito www.latteleda.it, con tanto di mission aziendale, elenco dei prodotti, campagne pubblicitarie, spot promozionali. Latte Leda è anche su Facebook.

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