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cultura dell'immagine e della parola

Torino Film Festival
Diario 2010, Giorno 5

Una scena da Small Town Murder SongsDopo appena cinque minuti di visione abbiamo subito la sensazione che Small Town Murder Songs dell’americano Ed Gass-Donnelly sia il miglior lavoro presentato in concorso al Festival fino a questo momento. Lo è innanzitutto per il rigore formale con cui l’intera struttura filmica è rappresentata: nell’ottima e curatissima fotografia, nella complessità dei lenti movimenti di macchina, nell’interpretazione decisamente notevole degli attori e in particolar modo quella del bravissimo Peter Stormare che dopo le ottime prove in Fargo e Dancer in the Dark, mostra qui di padroneggiare anche la dimensione attoriale principale.

La storia racconta le vicende di una comunità mennonita dell’Ontario sconvolta da un omicidio di una ragazza su cui indagherà Walter, un commisario di polizia che dovrà affrontare i propri demoni nel suo personalissimo percorso di redenzione interiore. E’ su questa narrazione che il giovanissimo regista ed autore Ed Gass-Donnell (che viene dal teatro) è capace di attingere ad alcune evocazioni “già viste” (su tutti la filmografia più noir dei Cohen, da Blood Simple a Fargo, ma, se vogliamo, anche la Twin Peaks lynchiana) ma contaminandole con uno stile espressivo personalissimo. Soprattutto cavalcando una delle cose veramente più potenti del suo film, la colonna sonora firmata dai Bruce Peninsula, gruppo Gospel-Rock canadese che ritma l’intera atmosfera della rappresentazione di Small Town Murder Songs. E’ con questo miscela tragica e micidiale fra immagine e suono – fra le maestose carrellate panoramiche e i cori gospel – che il film assume una dimensione monumentale in delizioso contrasto al microsmo della “Small Town”. Il contesto religioso in cui è immerso tutto, con tanto di passi evangelici citati a intervallare le varie scene – contribuisce ancora di più a costruire quell’anima divina e gotica focalizzata da Gass-Donnell nel percorso di redenzione di Walter, obbligando il film a viaggiare in parallelo fra la lotta intestina contro i demoni interiori del protagonista assieme all’indagine per invidivuare il colpevole dell’efferato omicidio. Fino al drammatico e risolutore crocevia finale.

Altro film in concorso presentato oggi è stato The Bang Bang Club, film che racconta le reali vicende dell’omonimo gruppo di foto-reporter di guerra durante la fase finale dell’Apartheid africano, che hanno documentato la vita (e le battaglie) nelle township tra il 1990 e il 1994, dalla liberazione di Nelson Mandela alla sua elezione a presidente. Quattro personaggi con le loro storie tragiche: Ken Oosterbroek è stato ammazzato nell’aprile del 1994, durante gli scontri a Tokoza, sud di Johannesburg. Kevin Carter si è ucciso pochi mesi dopo. E non è tutto. Il film chiude raccontando didascalicamente le vicende odierne di Greg Marinovich e Joao Silva, i due sopravvissuti del bang bang club, ma la realtà in questo caso sembra essere più veloce e crudele della rappresentazione cinematografica: proprio Joao Silva un mese fa è saltato in aria su un campo minato nel sud dell’Afghanistan, rimanendo miracolosamente vivo ma perdendo entrambe le gambe. Ben girato da Steven Silver, il film ha quel limite sistemico delle rappresentazioni che intendono solo narrare storie già scritte, senza approfondire l’intimità emotiva dei suoi protagonisti. I dubbi morali sul ruolo dei fotografi in guerra è un elemento interessante, ma viene sollevato solo verso la fine. Risolvendolo forse in un modo troppo veloce e semplicistico.

Hanno chiuso la giornata due appuntamenti collaterali abbastanza significativi. Il primo è stato la proiezione in anteprima dell’affresco documentatistico di Napoli 24, film multi-autoriale (tre minuti per 24 frammenti) dedicato alla città parteneopea, fra cui spiccano anche registi come Sorrentino, Martone e Marcello (vincitore dello scorso TFF). Le immagini di una Napoli pittoresca e tragica danno vita a una visione ambivalente di una città nobile e decadente al tempo stesso, in cui si trova veramente di tutto: dal malaffare mafioso-politico fino tradizione culinaria, dai guaglioni della microcriminalità di periferia fino a primitive principesse di un passato ormai secolarizzato.

Infine, per la retrospettiva dedicata Vitali Kanevsky è stato proiettato Nous, les enfants du xxème siècle, documentario dai sapori neorealisti sui bambini e gli adolescenti della Russia post-comunista, una sorta di Comizi d’Amore pasoliniano, struggente e drammatico. Kanevsky intervalla interviste a ragazzi più o meno piccoli svelando storie estreme fatte di violenza e disagio economico il cui risultato è una lucidissima e commovente critica politico-sociale a una Russia (quella dei primi anni Novanta) pronta a lasciarsi le spalle l’esperienza socialista e lanciarsi nel capitalismo più sfrenato. Per l’occasione il film è stato presentato in sala proprio dall’autore russo accompaganto da Gianni Amelio. In uno scambio battute il direttore del Festival ha pubblicamente espresso la sua grande stima nei confronti di Vitali Kanevsky, confessando di essersi battuto in prima persona per portare la sua retrospettiva al Torino Film Festival 2010.

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