Quando si dipinge, si ama in un altro modo
Sebbene le vicende biografiche di alcuni artisti sembrino “fatte apposta” per il grande schermo, trasporle in un film non è affatto facile. Il rischio, infatti, è che la componente del “maledettismo” di ascendenza baudleriana prenda il sopravvento nelle sue forme più ingenue e stereotipate, e che degli artisti venga data unicamente l’immagine convenzionale del genio malinconico o schizoide, senza che vi sia una più sensibile riflessione sulla pittura, riflessione in genere limitata sullo schermo a due pennellate sulla tela, tracciate in stato confusionale. Ma l’artista, prima di essere un alcolizzato o uno sciupafemmine o un poveraccio disadattato, è innanzitutto artifex, ovvero creatore, ed è proprio questo aspetto ad essere il più trascurato da molti biografi e registi, quasi che la poetica alla base del lavoro di un pittore (ma il discorso, ovviamente, non vale solo per questi ultimi), che è specchio dell’Io e della visione del mondo che l’Io creativo ha, sia meno affascinante delle capatine al bistrot o al manicomio. Il rischio insito nei film dedicati alle vite dei maudit, siano essi poeti o legati alle arti figurative, è dunque quello di privilegiare, nel binomio genio e follia (di per sé, già largamente abusato) il secondo termine a scapito del primo.
Un rischio, questo, in cui si sarebbe potuto imbattere anche Martin Provost accingendosi a girare Sèraphine, data l’incredibile biografia di questa straordinaria, quanto sfortunata, pittrice francese; vita che ricorda vagamente la favola di Cenerentola, anche se in una versione più crudele e priva di lieto fine. Orfana di entrambi i genitori, la donna ha vissuto per anni nella cittadina di Senlis, svolgendo diversi lavoretti per le ricche famiglie borghesi del luogo e conducendo un’esistenza poverissima. Il suo incontro con il critico e mercante d’arte tedesco Wihlelm Uhnde è avvenuto in circostanze assolutamente fortuite, in quanto colui che diverrà suo sostenitore e protettore ha scoperto per puro caso uno dei suoi quadri. Uhde, però, non è il principe azzurro, e la vita di Sèraphine, Cenerentola pazza che parla con gli angeli, si conclude in un manicomio prima che possa assistere alla mostra parigina delle sue opere. Com’è facile notare, ci sono tutti gli elementi per diffondere a piene mani follia, mestizia e tragedia lungo tutta la durata del film, ma è proprio da questo gioco facile che il regista non si lascia tentare e, grazie anche all’eccellente interpretazione della Moreau, riporta in vita la figura di una donna sì povera e umile, ma dotata di una straordinaria sensibilità, tale da permetterle di cogliere l’incanto e la bellezza della luce che filtra attraverso le foglie degli alberi, della campagna vestita di verde intenso, del fango e del sangue fonte di vita e da cui trae la materia prima per dare vita al suo mondo interiore, risvegliato dal canto di un angelo. Le scene più belle del film sono proprio quelle in cui Sèraphine dipinge nella sua stanzetta, con le mani grassocce e rovinate sporche di colore, china con tutto il suo corpo sgraziato sulla tela, il volto scolpito dalla penombra come in un quadro di George La Tour; volto mistico, di un demiurgo donna che impasta sangue e fango per creare un Eden dove non vi sono esseri umani ma fiori di fuoco, vivi. Fuori dal suo improvvisato atelier, lontana dalle stradine di Senlis, lo sguardo di Sèraphine da mistico diventa panico e la natura diventa un’entità da contemplare ed abbracciare, un’entità con cui stabilire un contatto materiale e sensoriale, quasi che stringendo a sé gli alberi, oltre a disperdere la sua tristezza, Sèraphine riesca anche ad attingere direttamente alla fonte della sua ispirazione. Immersa in questi ampi e verdeggianti scenari naturali, sia quando abbraccia un albero che quando nuota nel fiume come una delle grandi bagnanti di Renoir, la pittrice appare piccola come una bambina; mentre una volta tornata nella sua stanzetta, ecco che con il suo corpo giganteggia sulla tela su cui quella stessa natura viene riprodotta, per poi tornare ad essere piccola, striminzita, non appena il lavoro è terminato e la tela è issata come un albero sulle sue radici. Tela che Sèraphine abbraccia proprio come fa con gli alberi; tele maestose come l’ultimo, grande albero sotto il quale siederà una volta rinchiusa in manicomio, immagine con cui il regista termina il film poiché emblema di come la follia non può prevalere sull’arte, in quanto ciò significherebbe prevalere sull’amore.
Meritatissimi i numerosi premi vinti da Yolande Moreau, che in questo film ha interpretato una delle parti più belle della sua carriera, e sicuramente una delle più difficili. L’attrice belga è riuscita ad esaltare la vera natura della “follia” di Sèraphine, “follia” che altro non è se non amore, per Dio, per la Natura, per l’Arte. Perché, come afferma la stessa artista, dipingere non è che un altro modo di amare.
Curiosità
Il film ha vinto in Francia ben 7 César, uno dei premi più prestigiosi della cinematografia francese, ed è stato molto apprezzato anche dalla critica statunitense. Negli USA Yolande Moreau ha vinto il premio come Miglior Attrice sia durante il Los Angeles Film Critics Association Awards cje in occasione del National Society of Film Critics Awards.
A cura di Saba Ercole
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