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La materia di cui sono fatti i sogni

La materia di cui sono fatti i sogni

Lucid Dreams di Andrea Fornasiero **********

«I film migliori somigliano a un sogno che non ricordi di aver fatto», dice Tilda Swinton in The Limits of Control (2009) di Jim Jarmusch e non dubitiamo le sarebbe piaciuto Inception. Così come avrebbe fatto la gioia di Deleuze per la sua scomposizione di realtà, logiche cinematografiche e parallelismi tra tempi diversi, in particolare nel montaggio alternato che tematizza la differente “velocità” delle scene contrapposte – roba cui siamo abituati per convenzione già dai tempi di Intolerance (David Wark Griffith, 1916). Christopher Nolan racconta di Cobb, esperto in furti d’informazioni per via onirica e ora ricercato in tutto il mondo, che accetta il compito apparentemente impossibile di innestare un’idea. E se un’idea è il più pericoloso dei virus, che effetti avrà su di noi la visione stessa di Inception o di qualunque altra opera non solo cinematografica? Perché in fondo è proprio della potenza della finzione, che si parla qui. Come sempre il regista gioca con personaggi dal forte senso di colpa e per questo capaci di ingannare anche se stessi, in questo caso moltiplicando i livelli del racconto in un gioco di matrioske che ha suscitato una montagna di discussioni, da David Bordwell giù giù fino ad alcuni nostrani e confusi giornalisti.

Nolan è in questo senso il regista più rappresentativo del nuovo millennio, quello che con Memento precorreva l’uso dei flashback e il racconto più enigmistico che enigmatico, da ricomporre per la gioia degli spettatori più attenti, poi divenuto una mania planetaria con Lost e serie affini. Dopo aver incassato svariati milioni di dollari ed essersi assicurato l’incondizionata fiducia degli studios con il suo film meno interessante (Il cavaliere oscuro), torna ad alzare la posta in Inception, costruendo svariati livelli di realtà onirica, dove di fatto ci si muove come in un videogame e ai quali si viene preparati sia da alcune sequenze “tutorial”, sia da una gran quantità di spiegazioni. Troppe secondo alcuni, che vorrebbero più azione o coinvolgimento emotivo, ma del tutto funzionali alla sfida mentale che il film mette in atto. Si entra in sala sapendo di dover prestare attenzione a ogni dettaglio per cercare di capire cosa succeda davvero in Inception e le conversazioni, con gran quantità di termini specifici e glosse didattiche, sono ossigeno per il cervello. Siamo pur sempre in un blockbuster hollywoodiano e chiedere a Nolan di fare Resnais, Buñuel o Lynch è semplicemente ingiusto, già quel che è riuscito a compiere in questo contesto ha del miracoloso. Inoltre il regista spiega nel film stesso perché i sogni che attraverseremo debbano apparire più reali che surreali.

Al di là dell’intreccio da heist movie, per altro condotto con impressionante ingegno, e della vena mélo che lo attraversa, questa forse più risaputa e un po’ soffocata, il film di Nolan è eminentemente postmoderno a livello di riflessione metacinematografica. Non tanto perché si può vedere Cobb quale analogo del regista – circondato da un produttore, un attore, un tecnico, un assistente e uno sceneggiatore – quanto per come Inception lavora sulla nostra percezione del mondo diegetico. L’esistenza della realtà attraversata dai personaggi nel mentre di uno stacco di montaggio è data per scontata, ma come Cobb e Arianna sono davvero arrivati al bistrot non ci è mai stato mostrato, perché non è avvenuto, siamo noi che ingannati dalla macchina filmica lo inferiamo. Perché appunto un film mima il nostro stato onirico e dunque cosa c’è di più simile a un sogno condiviso del cinema?

Sogni contorti a tavolino di Giampiero Raganelli ******

Con Inception, Christopher Nolan realizza una sorta di summa del cinema che ha fatto fino a oggi, cercando di coniugare quella estrema complessità narrativa dei film del suo esordio, gli “sperimentali” Following (1999) e Memento (2000), con il cinema più spettacolare e mainstream dei vari Batman. Va detto, da subito, che tale ibridazione non è perfettamente riuscita. Nolan costruisce un dedalo mentale estremamente contorto, fatto di piani temporali diversi che si intersecano e onirismo all’ennesima potenza. Se Memento realizzava “semplicemente” un’inversione cronologica della narrazione, qui il regista opera un rimescolamento della dimensione temporale, fatto di dilatazione e compressione dei tempi narrativi, di continuo andirivieni tra la cronologia del subconscio e quella della realtà, o presunta tale. I tempi onirici sono diversi da quelli reali, come viene detto, e sull’incastro, e l’accavallamento, delle due dimensioni, si costruisce la progressione del film. È un’opera perfettamente coerente con l’universo letterario del grande Philip K. Dick, dove i confini tra gli accadimenti reali e i sogni, e i sogni di sogni, sono labili.

Il film è poi giocato sul tabù dei volti dei figli del protagonista, il quale vive nel paradosso di poter fare esplorazioni visive inimmaginabili, ma di non riuscire a vedere quello ciò che gli è più caro. E su questa tensione, tra la grande quantità di visioni a disposizione, e l’anelito all’unica che è importante, si gioca lo scarto tra realtà e immaginazione nel film. Figurativamente Inception è perfettamente coerente con la sua struttura labirintica. Scene che ruotano di 360 gradi (realizzate rigorosamente senza effetti digitali), inquadrature sghembe e sottosopra, personaggi in posizioni spaziali inedite, trasversali o con la testa in giù, a sfidare le leggi di gravità. Sembrano gli interni delle astronavi di 2001: Odissea nello spazio (Stanley Kubrick, 1968) e danno un senso di disorientamento spaziale proprio come le immagini impossibili di Escher.

Nolan costruisce un film spettacolare senza utilizzare, o quasi, gli effetti CGI, come si farebbe normalmente oggi. Tutte le immagini quindi danno la stessa sensazione di veridicità, permettendo così di mantenere fino in fondo l’ambiguità tra sogno e realtà. Il film è stato girato in sei paesi diversi, quasi come i film di 007, costruendo set giganteschi e sfidando continuamente ciò che si può fare al cinema senza ricorrere al digitale. Come nella filmografia del regista, a partire da Insomnia (2002), assumono grande importanza i paesaggi, tra cui anche quelli glaciali come in quella pellicola. A non funzionare è proprio questa struttura estremamente contorta, che non tiene conto dei meccanismi spettatoriali, richiedendo sforzi mentali continui al pubblico. Se in Memento la complessità era un qualcosa di organico, giustificato, qui rimane il sospetto che essere di fronte a un’operazione fredda, studiata a tavolino.

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