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cultura dell'immagine e della parola

Aspetta e spera
Venezia, 8 settembre

Il nostro inviato costretto alle pillole per liberarsi dal peso di certi filmVenus Noire di Abdellatif Kechiche è il vaso di Pandora della Mostra 2010: è il film che racchiude, custodisce, rigenera tutti i film visti in questi giorni. La storia vera di Saartjie Baartman, la donna sudafricana portata in Europa, prima a Londra e poi a Parigi, trasformata in un fenomeno da circo per soddisfare le distrazioni della civiltà dei bianchi, rappresenta la sintesi perfetta di forma, contenuto e idea di questa Mostra cinematografica. Anche nei suoi limiti o nei suoi difetti. La donna, il corpo, la sopravvivenza, l’immagine che ognuno ha di sé, il rapporto tra realtà e finzione, il tema dello sguardo dello spettatore che per necessità deve andare in profondità trovandosi incastrato in un duplice spettacolo, mascherato da vittima e carnefice. E poi l’aspra e tragica questione razzista (che tocca sempre più da vicino l’Europa, la Francia in primis), l’ambiguo confine tra scienza e ignoranza, tra conoscenza e oltraggio, tra pudore e paura. Kechiche racconta tutto con la rabbia di chi vuole raggiungere il cuore dello spettatore per scuoterlo fino a fargli male. E ci riesce. Venus Noire ti fa male e ti fa arrabbiare, ti fa inorridire e ti fa disgustare, senza possibilità di scampo. E questa storia non poteva essere raccontata diversamente, anche perché pienamente attuale e viva. Pur nei suoi eccessi è una storia vera, raccontata con la passione di chi, da Tutta colpa di Voltaire passando per La schivata fino a Cous cous, ha sempre scelto di raccontare il lato più oscuro della realtà, quello più scomodo, più naturale. Talmente vero che sembra finto. È in Concorso.

The Town di Ben Affleck, successivamente, mi è servito come analgesico. Un bel film d’azione e distrazione con un tocco di storiella d’amore. Evitiamo i paragoni con Gomorra di Garrone (Ben Affleck ha dichiarato che si è ispirato grazie a questo film e che Boston è come Napoli), piuttosto sbizzarriamoci con le tante (troppe?) citazioni: da Inside Man, a Batman Returns, da Mystic River a Point Break.

Accantonati Kechiche (dal quale non mi sono ancora liberato) e Affleck ci sono stati altri tre viaggi diversamente interessanti: That Girl in Yellow Boots, dell’indiano Anurag Kashyap, Homeland del greco Syllas Tzoumerkas e Tajabone di Salvatore Mereu. Il primo è firmato dal regista del controverso e pluripremiato film sugli attentati del 1993 a Bombay, Black Friday che nel 2004 ha ricevuto la sua consacrazione internazionale presentandolo al Festival di Locarno, premiato poi all’Indian Film Festival di Los Angeles. La storia di Ruth alla disperata ricerca del padre nella caotica Mumbay funziona solo in parte e ricalca un po’ troppo il modello tracciato da Irina Palm di Sam Garbarski. Homeland, invece, ha un ingranaggio tosto e complesso. La storia di una famiglia greca è raccontata in modo disordinato con sbalzi spazio-temporali, alterna filmati e foto d’epoca e sfocia in una tragedia. Il film, inserito nella Settimana della Critica, soffoca un po’ nella sua stessa idea, non perdendo, tuttavia, il suo valore sociale e attuale. Il terzo viaggio, Tajabone di Mereu (Sonetaùla, Notte rumena e Ballo a tre passi col quale vinse Settimana della Critica nel 2003 e David di Donatello nel 2004), è lo stuzzicante progetto creato dal regista con alcuni ragazzi delle scuole medie della periferia di Cagliari, nato all’interno di un corso di educazione all’immagine e trasformatosi in un gioiellino sulla difficile realtà vissuta da un gruppo di ragazzi. Bello e imperfetto, onesto, duro, profondo e spontaneo. Una sorpresa.

Attenberg della greca Athina Rachel Tsangari, in Concorso, è un film che mescola spunti da teatro dell’assurdo con effetti da documentario. Il tentativo della regista greca è quello di raccontare la maturazione affettiva e fisica di una ragazza attraverso lo sviluppo di una difficile realtà familiare. Il film è curioso, non è volgare nonostante affronti un tema delicato, è tenero e un po’ ingenuo. Coerentemente segue le linee del concorso fondate su immagine, corpo e sopravvivenza (qui, della specie).

Domani verrà presentato, in Concorso, La solitudine dei numeri primi di Saverio Costanzo. Ultime speranze e attese di cinema italiano che quest’anno, tutto sommato, non ha deluso come altri anni (e domani è anche il giorno di Notizie degli scavi, di Emidio Greco con Battiston e Il primo incarico, di Giorgia Cecere con Isabella Regonese). Ma i film tratti da romanzi famosi, oltre ad essere una scommessa difficile da vincere, mi spaventano un po’. E dietro a questo c’è, ovviamente, una grossa macchina pubblicitaria (è sponsorizzato da Repubblica e distribuito da Medusa). Ma è vero anche che dietro la macchina da presa c’è un regista in gamba e coraggioso. Aspetto e spero.

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