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Sex and the Desert

Sex and the Desert

Che delusione. Peggio di così non poteva andare. Quando nel 1998 apparve per la prima volta la serie sulla HBO, le donne di tutto il mondo (o quasi) guardarono alle quattro ragazze single come a eroine da imitare. Belle nonostante gli evidenti limiti estetici, glamour, piene di vita, professioniste, indipendenti e con una vita sessuale attiva e non colpevole. Che liberazione, finalmente un modello positivo con cui andare oltre il mito della donna in carriera mascolina o della casalinga frustrata. La serie proponeva un modello di femminilità nuovo, se pur aggressivo, ma sempre consapevole e addolcito da uno stile riconoscibile. Un successo così esagerato e globale, in grado di unire donne uomini e gay sotto un unico cappello alla moda, non poteva certo esimersi da fare il passo sul grande schermo.

Il film del 2008, operazione all’insegna del product placement di lusso, aveva fatto storcere qualche naso, ma in fondo, nella sua mediocrità, altro non era che una settima e conclusiva stagione della serie. Un regalo per i fan. Fu ovviamente un grande successo, per cui, nonostante i 53 anni di Samantha e gli oltre 40 delle altre 3 ex ragazze ed ex single, il sequel sembrava inevitabile. E infatti è arrivato puntuale, manco fossero le tasse. Diciamo così perché, dopo aver visto il film, anche l’affezionato duro e puro non può che gridare all’orrore. Inizio scoppiettante con un matrimonio gaio esagerato con tanto di cigni e una Liza Minnelli in gran forma in veste di celebrante perché “è una legge della fisica: quando c’è così tanta energia gay, Liza si manifesta”. Risate, vestiti, Samantha. Ma dopo? L’idea di spostare l’azione dalla city del titolo al deserto degli Emirati Arabi certo non ha giovato, ma santo cielo, scendere così in basso era quasi una missione impossibile. Vedere le quattro sgallettate aggirarsi nel lusso più sfrenato, e fastidioso, lamentandosi della crisi, inorridire all’idea di viaggiare in classe turistica e indossare vestiti borchiati e gonne a tutù per girare in un suq senza sapere cosa sia, è insostenibile per chiunque. Per non parlare della superficialità e della fastidiosa superiorità culturale con la quale vengono affrontati i problemi della condizione femminile in questi paesi.

I superproblemi di queste donne non sono più legati ai sentimenti e alle ipocrisie di una società che le vuole lavoratrici, moglie e madri senza via di scampo (in occidente), ma riguardano scempiaggini come trovare un luogo all’aperto per scopare con uno sconosciuto in un paese arabo, farsi regalare un anello, domandarsi se un bacio sia tradimento. Si salva la scena delle confessioni tra madri (Charlotte e Miranda) unica parvenza di realtà in questa assurda e strampalata vicenda. Il pubblico si meritava di meglio che vedere un cambio d’abito anche in mezzo al deserto e soprattutto non aveva bisogno di 146 minuti per dimostrarci che l’uso prolungato dei tacchi 12 può portare alla decerebrazione.

Curiosità
Ovviamente il product placement non poteva mancare. A parte l’imbarazzante promo alle Pringles (che sembra uscito dal Truman Show), va sottolineato il cambio epocale nell’uso delle scarpe: le calzature del film infatti non sono firmate dall’amato Manolo Blahnik, marchio protagonista della serie, bensì provengono dalla maison di Christian Louboutin.

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