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Un’Italia laterale che sa ricominciare

Un'Italia laterale che sa ricominciare

“E la vita continua anche senza di noi, che siamo lontano ormai da tutte quelle situazioni che ci univano, da tutte quelle piccole emozioni che bastavano, da tutte quelle situazioni che non tornano mai”… La scena è quella del funerale di una ragazza morta di parto e un regista, Daniele Luchetti, sostituisce alla classica omelia d’un prete o al discorso degli amici più cari, una canzone pop urlata a squarciagola. Di quelle struggenti e disperate in cui c’è scritta tutta l’Italia, quella vera, quella normale, quella di chi è al margine di un sogno più grande, incastrato tra i palazzoni in costruzione di una periferia informe. In questo contesto post-pasoliniano inizia e finisce l’amore di Claudio (Elio Germano) ed Elena (Isabella Ragonese), una giovane coppia tenuta insieme dai loro corpi, dalla loro semplice voglia di vivere e distrutta a causa della fine improvvisa di lei. Claudio resta solo, nel suo cemento, a crescere tre figli: non far mancare loro nulla (carezze escluse) è il suo pretesto per rincorrere il guadagno facile e per riempire le loro giornate, senza più amore, di partite alla Playstation e di oblio. Claudio non cerca un altro corpo, ma soldi.

In effetti, l’espediente narrativo può apparire pretestuoso (e lo è), il rapporto di causa-effetto non è assolutamente immediato. Ma il risultato finale è più che dignitoso: dopo Mio fratello è figlio unico, Luchetti riesce a confezionare un altro buon film che racconta un pezzetto d’Italia, quello che sopravvive grazie ai condoni edilizi, quella in cui si aggirano spesso le telecamere di programmi come Report, quella che non fattura mai e che tratta umanamente tutti i suoi operai, mantenuti a nero con una certa discrezione. L’Italia che non sa che fare quando un immigrato straniero, senza passato, precipita e muore in un cantiere, che diventa ad insaputa dei cittadini un macabro cimitero. Il dolore soggiacente è il modo per far passare l’immoralità di Claudio senza sdegno dello spettatore, ma perché no, più interessante proprio perché discutibile, che rende il film un vero film e non un documentario mancato.

Ha esordito insieme ai vari Riccardo Scamarcio e Silvio Muccino, rappresentando da subito l’anti-divo e diventando presto il volto della nuova generazione di talentuosi attori italiani: Elio Germano, il “roscetto” di borgata che veniva pestato a sangue in uno dei suoi primi film, Che ne sarà di noi, con il quale già faceva parlare di lui, è cresciuto, ed all’edizione del Festival di Cannes appena conclusasi hanno deciso che è il migliore, spartendo la gloria con un altro grandissimo “tipo” europeo, Javier Bardem. Si spera che la prossima consacrazione giunga anche al multiforme Zingaretti, qui in un’orripilante versione dal capello lungo e unticcio, il classico prestanome dal presumibile cuore d’oro. Credibile finalmente anche Bova nel ruolo del quarantenne solo e stralunato, prossimo a farsi “acchiappare” dall’emigrata ucraina dall’occhio lungo. Oltralpe, più che in patria, il nostro cinema piace, racconta, sfiora delle corde: pretestuoso o meno, l’espediente di Luchetti è riuscito a raccontare davvero quel mondo sommerso dalla calce, che ci aspetta un metro oltre i centri storici delle nostre antiche città e pertanto, ha avuto il meritato riconoscimento, due anni dopo l’exploit italiano di Gomorra e de Il divo.

Curiosità
Nel ritirare il premio come Miglior Attore all’edizione 2010 del Festival di Cannes, Germano ha dichiarato: “Dedico il premio all’Italia e agli italiani che fanno di tutto per rendere il paese migliore nonostante la loro classe dirigente”.

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