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Al centro della colpa

Al centro della colpa

Religione colpa di stato di Sara Sagrati *********

Un film contemporaneamente acclamato e odiato: difficile trovare una via di mezzo. Se a volte tale contrapposizione sia facilmente spiegabile, nel caso di Agora è davvero difficile capirne esattamente le motivazioni. I detrattori non si spiegano l’amore degli entusiasti e viceversa. In effetti si tratta di un caso unico nella storia recente: un film epico, ricco di scene avvincenti, con una protagonista forte e fiera, in cui si trovano grandi passioni, grandi vicende, grandi battaglie, grandi intrighi. Generalmente anche la critica più intransigente assolve tali opere, eppure in questo caso si sono alzati decisi cori di no. C’è chi dice manierista, chi patinato, chi addirittura sciatto. Incredibile quanto all’occhio di altri si tratti di un capolavoro. Sebbene sia vero che alcuni passaggi evolutivi del personaggio di Davo (lo schiavo, il cui nome a rima è diretta conseguenza dell’originale Dave the slave) siano forse troppo semplicistici, la storia di Ipazia ad Alessandria d’Egitto ci racconta così bene “l’oggi” che tanto accanimento stupisce e non poco.

Nel film nessuno si salva, tutti sono colpevoli e la consapevolezza di essere nel giusto perché in grazia di Dio (che si sia pagani, cattolici, ebrei o filosofi) è la causa dell’impossibilità di vivere in pace, della distruzione volontaria o involontaria del senso civico, della convivenza, della città e dell’amore. Amenabar racconta con impeccabile senso etico questa realtà (storica e contemporanea), intervallando grande spettacolo (forse questo il suo peccato?) a una grande poesia cosmica, con un occhio divino che continua a ignorarci. E come se ci dicesse: “tutto quello che sappiamo è in divenire, mentre noi ambiamo ad essere finiti”. Forse è questo il problema del film: quello di aver toccato il nervo scoperto della nostra umanità.

In cerca di un centro di gravità inesistente di Valentina Vantellini *****

Ecco la storia di una femminista ante litteram, l’astronoma alessandrina Ipazia, colta donna della nobiltà greca alla disperata ricerca della logica che governa l’universo. Pardon, colta donna “atea” della nobiltà greca alla disperata ricerca di un lungimirante e plausibile “pretesto” scientifico che confuti le teorie geocentriche (e teocentriche) allora diffuse da Tolomeo. Una scienziata all’instancabile ricerca di prove schiaccianti e rivoluzionarie che attestino la forma sferica della terra e l’impossibilità per le orbite planetarie di essere perfettamente concentriche e circolari. Ardua impresa per un raffinato e complesso regista come Amenábar, incapace egli stesso di trovare un centro di gravità per il suo nuovo film. Grazie a “Dio”, tutta la simbologia visiva (fatta di piazze circolari, edifici che aprono il loro soffitto circolare al cielo e una terra vista girare su stessa dal futuro di un satellite o di una navicella spaziale) compensa la mancanza di senso emanata fin dal principio dal film.

È triste doverlo ammettere, ma, quando sono le proprie convinzioni (religiose nello specifico) a incanalare e ammantare tutte le azioni e le reazioni a catena alla base di una sceneggiatura, si ha l’impressione che il cinema serva, ahimè, solo da ennesimo veicolo di sterile polemica nei confronti di aspetti, pur reazionari e deprecabili, della società contemporanea. L’assunto è chiaro: non è la fede in Dio a rendere l’uomo compassionevole, quanto l’amore per la conoscenza. L’uomo, infatti, accecato com’è dal potere e dall’ingordigia, si crea degli idoli a proprio uso e consumo che fungano da alibi per legittimarne le azioni e scagionarlo di fronte ai propri simili. In particolare, la fede in Dio diventa per i cristiani la molla e la scusante per il vituperio delle discipline scientifiche, precorrendo l’oscuramento della ragione dei bui secoli medievali. Fin qui, chi sa un po’ di storia non potrà che concordare con la lettura del regista. Ciononostante, saranno il corollario di spiacevoli situazioni atte a suffragare l’ateismo della protagonista Ipazia, unitamente alla dimostrazione del teorema che vuole il buon senso non tanto al di sopra, quanto in sostituzione della fede, a lasciare davvero a desiderare. Amenábar ha infatti giocato sporco in questa pellicola controversa (per i soliti, futili e bigotti motivi) e che ha sofferto a lungo prima che un distributore italiano si decidesse ad accollarsene l’uscita nelle sale. Ha giocato sporco perché ha costruito una trama la cui protagonista (che sia la scienza, la ragione pura o Ipazia poco importa) totalmente e incontestabilmente positiva a cui fanno da muro antagonisti (i cristiani e i fanatici monaci parabolani in primis, i giudei poi) unidimensionali, iperbolici, ridicoli e stereotipati. Per non parlare del coro di amanti frustrati e pilotati nelle loro scelte religiose dal tornaconto personale (Oreste), dal potere (Synesius) o dall’amore rinnegato (Davus) – come a dire che la fede sia una semplice scelta di vestiario . Tutto ciò onde dimostrare la correttezza dell’assunto iniziale. A questo punto lo spettatore che sfugge alla manipolazione messa in atto da Amenábar si sente preso in giro, costretto com’è a dover prendere inevitabilmente e senza possibilità di scelta le parti della protagonista. Ed è davvero un peccato: primo perché Amenábar è un regista affascinante e intelligente; secondo poi perché la stessa Rachel Weisz è un’attrice sensibile e capace di trasmettere emozione; terzo perché la scenografia, evidenziata da riprese aeree e zoom in che ci attraggono alla terra catapultandoci dallo spazio, è teatrale, ma al contempo, precisa e reale; quarto perché il tema affrontato avrebbe potuto acquistare molta più forza se trattato con più ragionevolezza. Alejandro Amenábar si è lasciato, invece, accecare dal suo ateismo tanto quanto, nella sua pellicola, i parabolani si son fatti accecare dalla loro (falsa) fede. E ciò che fa rabbrividire è che l’ateismo dietro cui Amenábar si nasconde altro non è che una religione il cui credo si fonda sul rigetto precostituito della religione “tutta” per fondarsi, invece, sull’arroganza e sulla presunzione di avere la verità dalla propria parte.

Insomma, Agora è un dramma storico che vorrebbe valorizzare le scelte anticonvenzionali di una donna forte e indipendente – il cui culto attraversa i secoli e le cui intuizioni ispireranno Keplero – ma che finisce, invece, col farsi scivolare dalle mani il potente messaggio di cui si vuole fare portatore per trasformarsi in una poco elegante allegoria dei giorni nostri – tutto per via dell’egoistica impronta moraleggiante e manichea che gli si è voluta conferire. In tre parole: una grande delusione.

Curiosità
Il set del film è stato costruito a Malta, nello stesso luogo (Forte Ricasoli) in cui fu eretto il Colosseo utilizzato ne Il gladiatore (Ridley Scott, 2000) e in cui fu girato Troy (Wolfgang Petersen, 2004).

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