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Una storia scritta sull’acqua

Una storia scritta sull’acqua

Teatro del film è un’anonima isola sulla costa orientale degli Stati Uniti. Nel romanzo è identificata come la nota località di villeggiatura vip, Martha’s Vineyard. Per i noti problemi giudiziari, Polanski non può girare negli Usa, per cui ha ripiegato verso una location indefinita (si tratta in realtà dell’isola di Sylt, in Germania). Un’ambientazione caratterizzata dalla forte presenza di acqua: le atmosfere brumose, la pioggia incessante, l’asfalto bagnato con le luci che si riflettono. Un ambiente gravido di ricordi polanskiani. L’acqua è stato un elemento chiave in tutto il suo cinema, fin da uno dei suoi primi cortometraggi, Due uomini e un armadio (Dwaj ludzie z szafa, 1958), realizzati da studente della Scuola di Lodtz. Ritornano lo spettrale lago di Masuria del suo primo lungometraggio, Il coltello nell’acqua (Nóz w wodzie, 1962), il paesaggio plumbeo dell’isola di Cul-de-sac (id., 1966), il Mont Saint-Michel invaso dalle maree di Tess (id., 1979), la spiaggia desolata delle streghe di Macbeth (id., 1971). Ricorrenti paesaggi acquatici, affascinanti e inquietanti allo stesso tempo, che rappresentano il forte retaggio naturalistico, panico, romantico della cultura d’origine del regista polacco.

Polanski torna al thriller. Con Harris realizza un film dai meccanismi hitchockiani. Il protagonista è un uomo ordinario, senza nome, che si trova coinvolto in una storia più grande di lui. Una vicenda che procede per passaggi, ognuno dei quali credibile, ma che portano, in un crescendo, a una situazione folle. Il maestro è omaggiato anche con la scena mozzafiato della fuga dal traghetto, accompagnata da una musica alla Bernard Hermann, che richiama quella di Intrigo internazionale (North by Northwest, Alfred Hitchcock, 1959). L’altro punto di partenza, per Polanski e Harris, è la narrativa hard boiled, quella di Chandler e Hammett, di cui il regista aveva già realizzato, con Chinatown (id., 1974), uno dei più importanti corrispettivi cinematografici. E, come aveva già fatto in Frantic (id., 1988), usa questa atmosfera noir come sfondo per raccontare la storia di un esilio, in cui si riflette la sua condizione reale, quella di non poter tornare nel paese che ha scelto come patria. E la solitudine emerge, come in tutta la sua opera, nel raccontare la storia dal punto di vista di un solo personaggio.

Un’ultima componente viene conservata dal romanzo di partenza. E’ quella di satira politica che si concretizza nello sberleffo all’ex Primo Ministro inglese Tony Blair. Nonostante Harris abbia voluto ridimensionare questa interpretazione, le accuse alla politica dell’ex Premier, sempre al guinzaglio degli Stati Uniti, sono palesi. Lo stesso percorso del giornalista e scrittore, passato da sostenitore di Blair a duro oppositore della guerra in Iraq, ne è la dimostrazione. E qui torna il Polanski di La morte e la fanciulla (Death and the Maiden, 1994) e di Il pianista (Il pianista, 2002), quello che non teme di sporcarsi le mani con l’impegno civile.

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