hideout

cultura dell'immagine e della parola

Lo Zimbabwe che resiste

Lo Zimbabwe che resiste

Se fosse una fiction, sarebbe uno dei legal thriller più avvincenti degli ultimi anni. Straordinario il personaggio di Mike Campbell, il 75enne “africano bianco” che si batte contro i soprusi e la violenza del regime di Robert Mugabe; perfetta la sceneggiatura, incentrata su un’efficace alternanza tra la sfida processuale e la lotta per la sopravvivenza nella fattoria di famiglia; sempre viva la suspense, soprattutto nel momento del drammatico rapimento dei protagonisti, seguito attraverso le angosciate telefonate ai parenti in Inghilterra. Purtroppo, il documentario di Andrew Thompson e Lucy Bailey concede ben poco alla fantasia: le immagini che si succedono sullo schermo sono sconvolgenti e tragicamente reali, e ci mostrano la dissoluzione “in presa diretta” di una nazione che in pochi anni ha dilapidato il proprio patrimonio di ricchezze (un tempo lo Zimbabwe era considerato il “granaio d’Africa”) precipitando in un abisso economico che diventa ogni giorno più profondo. E che non si tratti di fiction ma di amara realtà lo testimoniano anche i titoli di coda: poco dopo l’illusorio lieto fine del film, che si conclude con la vittoria della famiglia Campbell contro il regime davanti alla corte internazionale della SADC (South African Development Community), gli spettatori vengono subito informati che la fattoria è stata comunque occupata e distrutta con la violenza, lasciando senza lavoro più di 500 persone.

Il documentario dei due registi, entrambi di scuola BBC, è tutt’altro che un’opera facile. Non solo perché è stato girato in gran parte clandestinamente, tra telecamere nascoste e fughe improvvise, e risulta di conseguenza una delle pochissime testimonianze dirette sulle attuali condizioni del paese africano; ma anche perché invita lo spettatore a prendere le parti di personaggi a prima vista ricchi e privilegiati, con cui l’identificazione sembra difficile. Ci vuole però poco a rendersi conto che tra i presunti sfruttatori bianchi e i veri sfruttati neri il passo è assai breve: sono entrambi vittime della distruttiva politica del regime di Mugabe, che guida il paese ormai da 30 anni. Il successo finale dell’impresa di Campbell e dei suoi familiari, sia pure platonico, è un evento senza precedenti e di straordinaria importanza per la storia africana, e rivela agli occhi del mondo come le pretese del dispotico governo dello Zimbabwe possano essere messe in pratica solo al di fuori delle regole della convivenza civile. Il film sostiene alla perfezione questa tesi con una regia lucida e incalzante, che mette in scena senza cadute di ritmo la successione degli eventi e scende in campo in prima persona nella vicenda narrata, entrando nell’intimità dei protagonisti persino nei momenti in cui si teme per la loro vita. Una tendenza, questa, che sembra davvero preminente nella non-fiction di ultima generazione, pronta a documentare le circostanze più tragiche della vita dei protagonisti o addirittura la loro morte (si vedano per esempio altri due film presentati al più recente Festival del cinema africano, Which Way Home e From Somewhere to Nowhere).

Al di là di questo inciso, Mugabe and the White African è senz’altro un’opera da non perdere, sia per il suo valore testimoniale, sia per la potenza e la drammaticità delle immagini. Anche se la vera chiave per comprendere la storia della famiglia Campbell la regala forse una delle poche scene “distensive” del film: quella in cui uno degli invasori, presentatosi alla fattoria per accampare i suoi presunti diritti, esclama “L’abbiamo fatta finita con i bianchi, adesso passiamo agli asiatici!”.

Non c'è ancora nessun commento.

Lascia un commento!

«

»