hideout

cultura dell'immagine e della parola

La principessa cerca marito

La principessa cerca marito

C’era una volta una formula cinematografica che funzionava, e forse funziona ancora: un tocco di esotismo, meccanismi ben oliati da commedia per famiglie, gag approssimative e un po’ naïf, ed ecco servita una pietanza più o meno prelibata, generalmente premiata dal pubblico. Il cinema africano non è sempre stato così, e certamente non lo era più nel 1998, ma a un regista di successo come Mweze Ngangura (autore del brillantissimo La vie est belle sulla scena musicale di Kinshasa) poteva ancora venire in mente di utilizzare il collaudato meccanismo per un’opera di facile intrattenimento con qualche contenuto “alto” in sottofondo.

Impresa riuscita: all’epoca, infatti, il film si aggiudicò il massimo riconoscimento al FESPACO, il più importante festival africano. A distanza di qualche anno, però, l’operazione mostra un po’ la corda, anche se va dato atto al filmaker congolese di averle tentate tutte per affiancare la riflessione sulle ex colonie del continente nero (e il loro rapporto con la madrepatria) a un allegro tono da commedia per famiglie. Il fatto è che quest’ultimo aspetto prende decisamente il sopravvento, e il risultato finale si avvicina più a Il principe cerca moglie che a un’opera d’autore; con l’aggravante che la comicità è annacquata da un buonismo a tratti esasperante e dalla riduzione a macchiette di quasi tutti i personaggi del film. Non aiutano in questo senso la recitazione istrionica di alcuni degli interpreti e la scarsa espressività di altri: si salva il protagonista Gérard Essomba, a tratti persino credibile nella messa in scena di un re da operetta. Si può definire non riuscito, insomma, il tentativo di dare vita a un’opera corale in equilibrio tra divertimento e impegno, come farà ad esempio negli anni successivi (ma con ben altro tasso di realismo) il franco-beninese Jean Odoutan.

Eppure, malgrado queste pecche, il film qualche carta da giocare ce l’ha: innanzitutto la presenza “cult” di Papa Wemba, uno dei musicisti africani più conosciuti di sempre. Poi, il punto di vista certamente non originale ma perlomeno sincero e commosso sul rapporto tra l’ex Congo Belga e il paese che lo colonizzò. Un rapporto che si incarna in tre figure un po’ schematiche ma un po’ efficaci: il vecchio Mani Kongo, ancorato alla tradizione e agli ornamenti regali che sono per lui veri e propri “documenti d’identità” (da qui il titolo del film); la giovane e bella Mwana, conquistata dalla modernità e dai ritmi di vita dell’Europa fino a perdere ogni contatto con le sue origini; il tassista Chaka Jo, condannato prima alla diaspora e poi alla clandestinità dalla sua condizione di mulatto. In questo senso la scena più significativa, malgrado la sua ingenuità, è l’incontro di Mani Kongo con una simbolica donna africana, che si presenta come Nubia e personifica il dolore dell’Africa per la perdita delle sue radici. E poi, tanto per alleggerire, c’è l’aspetto “documentaristico” del film: un terrificante campionario di musiche, acconciature, scarpe, orologi e costumi (e il riferimento non è a quelli africani) che soltanto gli anni Novanta potevano regalare.

Non c'è ancora nessun commento.

Lascia un commento!

«

»