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Il treno dei desideri

Il treno dei desideri

L’elenco dei ringraziamenti finali occupa quasi metà dei titoli di coda, e non è certo un caso: per realizzare un documentario del genere ci sono voluti il sostegno e la collaborazione di mezzo Messico, oltre a uno sforzo produttivo presumibilmente molto oneroso (tra gli artefici c’è anche John Malkovich). Ne è valsa la pena: il risultato è un’opera che ha ottenuto anche una nomination agli Oscar e che qualunque documentarista sognerebbe di portare a termine, sia per l’inappuntabilità tecnica della realizzazione, sia per l’eccezionale valore di inchiesta del lavoro compiuto da Rebecca Cammisa e della sua troupe.

Tre cameramen si sono assunti infatti l’incredibile compito di seguire passo dopo passo, nelle stazioni e a cavallo dei vagoni di treni merci, quattro bambini tra i 13 e i 17 anni (due honduregni e due messicani) che dal confine con il Guatemala attraversano tutto il Messico per raggiungere la meta tanto agognata: gli Stati Uniti d’America. Parallelamente si sviluppano diverse altre storie di immigrazione infantile: alcune “soft” come quella di Juan Carlos, accudito e riportato a casa in Guatemala dai servizi di immigrazione, altre dolorose come quella del fratellino malmenato e abbandonato dai contrabbandieri nel deserto texano, altre infine tragiche, che ripercorrono le vicende di chi dal lungo viaggio non è mai tornato a casa. Il film, in effetti, si apre con la sconvolgente immagine di un cadavere che galleggia sul fiume a Piedras Negras, lungo il tracciato del confine statunitense; e le situazioni sconvolgenti non mancano di certo negli 83 minuti di documentario, dalla donna che alimenta il figlio neonato con il Gatorade ai due bambini di 9 anni che sperano di raggiungere i genitori in Minnesota. Ma la regista non cerca mai lo shock fine a se stesso né si compiace in alcun modo della drammaticità del tema: anzi, l’inevitabile complicità che viene a crearsi con i giovani protagonisti, dallo strafottente Kevin al navigato e disilluso diciassettenne detto “El Perro”, regala all’opera un tono quasi scanzonato che mitiga la miseria e la disperazione delle situazioni ritratte. Aiuta, in questo, anche il veloce ed efficace montaggio che incastra alla perfezione le linee narrative, intervallando le immagini dei ragazzi in fuga con quelle degli scenografici panorami incontrati durante il viaggio.

I contenuti, comunque, alla fine hanno la meglio sulla forma, perché in questa storia finora poco raccontata quasi tutto impressiona: il contrasto tra coraggio e paura, tra maturità e ingenuità dei piccoli Fito e Jairo; gli sforzi dei privati che lungo il percorso della ferrovia allestiscono punti di ristoro e di informazioni per i migranti; la resa delle autorità, che non potendo contrastare l’immensa fuga di massa alternano la repressione alle cure offerte dai “Grupos Beta”, sorta di angeli custodi che cercano di rifocillare e sostenere in qualche modo i viaggiatori clandestini. Nelle vicende raccontate non c’è lieto fine: alcuni tra i migranti vengono fermati già all’inizio del viaggio, altri vengono bloccati dalla “Migra” messicana o dalla polizia degli Usa, altri ancora si fermano di fronte alla barriera naturale del deserto. I più fortunati (ma sarà davvero così?) riescono a introdursi in territorio americano, dove sperano di ricongiungersi con i genitori o trovarne di nuovi attraverso l’adozione. Sul loro futuro, però, il documentario tace: nulla vieta di pensare che saranno tra gli spettatori di queste immagini che immortalano tutto ciò che si sono lasciati alle spalle.

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