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Annusa l’aria e guarda fuori

Annusa l’aria e guarda fuori

Forse molti non conoscono ancora Paolo Colagrande e quando cominceranno a leggere questo romanzo capiranno subito che c’è qualcosa che non va. Ma non per “colpa” della sua scrittura, né tanto meno della storia. Anzi. Questo non-andare è proprio un avvertimento da recepire: è il senso del racconto. Sin dall’inizio Paolo Colagrande, con una serie di primi capitoli straordinari, ci prepara ad un viaggio di cui non si afferra appieno il significato, di cui non intendiamo la durata e soprattutto in cui non capiamo dove andremo a parare. Eh sì, qualunque lettore è sfidato a sentirsi immediatamente a suo agio in un posto chiamato Universal, stanza onirica che solo a metà romanzo diventa “luogo” (quasi) possibile, con un personaggio che ammette di parlare a vanvera e dice di indossare l’anima del diavolo (dunque, non proprio un tizio affidabile) e dove l’inizio dell’avventura è un risveglio, ma non un risveglio qualunque. Un risveglio non-umano, una sorta di ritorno (da vivi) dalla morte. Difficile da spiegare.

Insomma, Colagrande ama fare il matto e ci riesce da Dio(blù) fino alla fine con una storia sporca, simile a un quadro pazzo di Chagall, ma che lascia dietro di sé un alone di tragedia vivace in cui a finire sotto accusa è la normalità degli altri, il più grave difetto di fabbrica. I personaggi, dal piccolo (?) protagonista carrettiere e chiaroveggente, figlio di un pesce e amico di un diavolo, alla nonna Giacoma fumatrice sonnambula, dal nomade folletto Hevelius alla tersa Romilde, sono buchi neri di un panorama italico lontano nel tempo (fascismo) e nello spazio (piccola provincia, oggi città fantasma). E poi c’è lei, l’essere umano più sensibile e autentico, l’autopompa elettricovolumetrica Titania, ovvero nient’altro che un avanzo di ferraglia malmessa. Una provocazione? Nient’affatto, solo mistero. E come consiglia l’autore, è inutile interrogarsi a riguardo. Nella follia tutto è concesso, anche ammettere l’idea che a salvarci l’anima (o qualcosa di affine) ci penserà proprio lei, quest’ammasso di ferro storpio, che vestita di un’ispirazione tecno-cristologica, elabora, attraverso sbuffi di luce turchina, tutta l’invisibile e in-finita merda che abbiamo nelle falde sconosciute delle viscere della nostra terra, per farne luce. Per farne aria pulita. Uno spunto straordinario, questo. Titania, oltre ad essere infatti un prodigio ecologico, è soprattutto con i suoi ingranaggi cosmonautici, motore immaginifico. E’ cinema. Sono ombre vere, demoni santi, figure pulite, quelle che la finestra bianca dello schermo ci propone ogni giorno. E Dioblù lo capisce al punto che è dentro un cinema che deve vivere, per poter sopravvivere. Mentre la gente paga il biglietto, guarda e se ne va sbadigliando, il nostro protagonista, durante tutto lo spettacolo, chiude gli occhi.

Non è la storia che gli interessa. Non è la storia che ci interessa. È il buio, il mistero, il nulla che ci emana quella/questa macchina (Titania, il cinema, il romanzo) a farne la differenza. Tutta roba pulita, insomma. Roba che in giro, si respira sempre meno.

L’autore
Paolo Colagrande abita a Piacenza. Con Fideg, il suo romanzo d’esordio, ha vinto nel 2007 il premio Campiello opera prima ed è stato tra i finalisti del premio Viareggio opera prima. Nel 2008 ha pubblicato il romanzo Kammerspiel.

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