La grande storia del rugby
La storia non è un pranzo di gala di Daniele Lombardi
È negli ultimi minuti di Invictus che la Storia, quella con S maiuscola, riesce a bucare lo schermo del cinema: in quella manciata di secondi finali in cui gli Springboks fanno “muro”, resistono faticosamente alla presa degli avversari Maori e nel mentre fissano impazienti gli istanti segnati dal cronometro, gli ultimi fotogrammi di gioco che li separano dalla vittoria. È qui che si scorge più chiaramente il filo che attraversa tutto il film di Clint Eastwood, il pragmatismo razionale (mai spicciolo) che il regista vuole intelligentemente accompagnare alla leggenda di Nelson Mandela e del Sudafrica post-apartheid del 1995. Non è la rovesciata spettacolare ed esaltante di Pelè in quel rallenty-looppato di Fuga per la vittoria, non è il punto segnato in più rispetto agli avversarsi in “zona cesarini” o il riscatto finale de L’altra sporca ultima meta. Non ci sono virtuosismi atletici o raffinatezze isolate insomma: quello che fa trionfare una partita, che ha una missione sociale ancora più che sportiva, è invece una resistenza a oltranza di ciò che si è conquistato in modo coraggioso ma logorante, usando i muscoli e il gioco di squadra piuttosto che l’astuzia del fuoriclasse. Un’avanzata (sociale e agonistica) che già c’è stata, e – nel momento decisivo – si deve valorizzare e difendere a ogni costo. Dall’altra parte la storia non è un pranzo di gala, come sembra suggerirci una battuta del film, ma è invece come una partita di rugby, uno sport “selvaggio giocato da gentiluomini”.
È in questo modo che Eastwood segna il confine fra un’agiografia retorica e una visione più realista (eppure incalzante ed appassionata) della recente vicenda del Sudafrica e del suo Leader più amato. La declinazione della politica nello sport non ambisce a costruire una narrazione mistica o leggendaria, ma al contrario è la rudezza del rugby e la sua possente fisicità a delineare chiaramente che il progresso sociale per Eastwood è un traguardo (un destino) da raggiungere metro dopo metro, segnando il passo senza mai scoprire le difese. Una sorta di Real Politik capace però al contempo di costruire un immaginario assolutamente pop, amato e con radici ben salde nei sentimenti dello spettatore. Non è un caso che Eastwood riesca a entusiasmare il pubblico del cinema rileggendo una partita che è già storia da più di 15 anni, incrociando le sorti di un match con le storie, piccole e grandi, di un intero Paese che ha vinto la sua battaglia sociale ma non si è ancora riconosciuta in essa. La stessa figura di Nelson Mandela (interpretato da un bravissimo Morgan Freeman, che oscura totalmente Matt Damon) è lontana dall’Olimpo in cui l’occidente lo ha riposto, vicino a miti come Ghandi e Maria Teresa di Calcutta. E nemmeno è, come qualcuno si è azzardato a dire, una sorta di prequel africano di Obama (Eastwood, ricordiamolo, è ancora un fedele Repubblicano). Mandela in Invictus assomiglia più invece a un machiavellico Principe illuminato, la cui lunga prigionia durata più di 26 anni non è vissuta come episodio vittimistico, ma come percorso costituente di una nuova saggezza e una nuova visione (terrena) delle cose. Come Walt Kowalski, il vecchio reazionario di Gran Torino (interpretato dallo stesso Eastwood), che si caricava sulle sue fragili spalle il peso di una società malata e razzista, allo stesso modo il Mandela/Freeman di Invictus sembra essere il solo personaggio del film segnato davvero dagli orrori dell’Apatheid, non per essere l’unico ad averli subiti, ma per essere riuscito ad elaborarli in modo lucido e costruttivo, temprando con la storia la sua anima ”invincibile”. E’ in questo modo che Eastwood regala allo spettatore un Mandela nuovo, che non è né profeta né freddo calcolatore, ma sa scorgere e assecondare il corso la Storia (quella del suo paese ma anche la propria, quest’ultima nella sua umanizzazione, forse un po’ trascurata, di padre e di marito oltre che di Leader politico).
In questo senso Invictus traspare come un film autenticamente “eastwoodiano”, nella sua innovativa classicità che sa spiazzare il pubblico, farlo uscire dai binari già segnati, eppure infine, riconquistarlo (ripercorrendo così con maestria le stesse contraddizioni di una narrazione storiografica mai didascalica e semplicistica). Un altro, l’ennesimo, piccolo gioiello cinematografico di un regista che in questo film sa rileggere il miracolo della storia senza ingannevoli voli pindarici, riuscendo a materializzarlo su un campo da rugby. Con tutta quella pesante umanità intrisa di sudore e di speranza.
L’instancabile storyteller di Valentina Vantellini
Invictus, ovvero invincibile, mai sconfitto: proprio come il neo-ottantenne regista dagli occhi di ghiaccio, protagonista vivente della storia del cinema e ultimo grande storyteller – assieme a Steven Spielberg e Tim Burton – del panorama cinematografico odierno. Caparbio, sagace e instancabile regista di un cinema che non dovrebbe mai morire, quel cinema classico che riesce a costruire una storia da pochi elementi; che rimane nel cuore per frasi memorabili e personaggi con una chiara “desire line”; che è così semplice da attrarre subito l’attenzione del pubblico. Sicuramente meno personale di Gran Torino, di cui mantiene, però, l’arguzia e l’ironia, Invictus è “racconto” allo stato puro, che si eleva al di sopra dei fatti rappresentati per erigersi ad esempio universale di solidarietà e riscatto. Che Morgan Freeman interpreti o meno Nelson Mandela poco importa; che l’apartheid sia stato e continui tutt’ora ad essere un tragico e vergognoso retaggio colonialista di una società chiusa e intransigente poco incide sulla più ampia visione della vita che il regista vuole esprimere attraverso il film. Perché qui non si tratta di biografia o docufiction; perché Mandela e il rugby sono solo un pretesto per raccontare un’avventura umana, guidata dalla speranza innestata sul terreno della solidarietà tra uomini. Eastwood, ancora una volta e qui univocamente, descrive la positività della vita e l’ottimismo ironico che bisogna assumere nei confronti di essa, senza rimorsi, né vittimismo.
Si dice che il progetto di Invictus, che in fase di produzione ha avuto il titolo provvisorio di The Human Factor, stesse particolarmente a cuore a Freeman, il quale sarebbe stato designato dallo stesso Nobel per la pace come proprio papabile interprete in una fiction sulla sua vita. E c’è da dire che il fare sornione dell’attore americano non delude mai. Matt Damon, altra camaleontica star in continua ascesa, recita bene come sempre, ma defilato come da copione, passando dai 13 chili presi per interpretare The Informant (Steven Sodebergh, 2009) a una forma smagliante, coronata da naso importante che maschera la caratteristica patata.
La politica attraversa in sordina la storia, con un mockumentary in 4:3 sull’elezione di Mandela a presidente e sugli scontri seguiti ad essa, nonché con i molti riferimenti alle visite del presidente ad altri capi di stato. E il bello è proprio qui: Eastwood non prende posizione, ma tratta le vicende da un punto di vista esterno, che lo pone in posizione privilegiata. La vicinanza di sentimenti tra il regista e lo statista deriva, piuttosto, dal suo essere uomo qualunque, solido, ma non privo di debolezze: il conflitto con la figlia e la riservatezza sulla propria vita privata, così come lo svenimento causato dall’eccessiva spossatezza la dicono lunga al riguardo. Così pure la visita al carcere di Victor Vester da parte degli Springboks, che non è mezzo di denuncia, ma narrazione oggettiva che vuole offrire un esempio dell’importanza della perseveranza e dello stoicismo anche in condizioni avverse. Lo stesso concetto predicano i versi della poesia Invictus, scritta dal poeta vittoriano William E. Henley. Le sue parole diventano filo conduttore di tutta la vicenda, musicate nel finale e ripetute o rese presenti da costanti set up e pay off, in qualità di bandiera della storia sudafricana; della lotta contro le ingiustizie dell’apartheid; della battaglia sul campo per conquistarsi la Coppa del Mondo di Rugby. Colonna sonora, fotografia e montaggio concorrono alla realizzazione di un futuro di speranza che si esprime in inni calati su baraccopoli al tramonto, che lasciano poi spazio alla residenza presidenziale, come a significare il ribaltamento delle sorti reso attuabile da una filosofia di vita che dice:
“[...] It matters not how strait the gate,
How charged with punishments the scroll
I am the master of my fate:
I am the captain of my soul”
Clint, continua a farci sognare con le tue storie di ordinaria umanità!
Curiosità
Anche lo stesso Morgan Freeman e la sua socia Lori McCreary hanno lavorato per anni a un film su Nelson Mandela, cercando di adattare la sua autobiografia, A Long Walk to Freedom, ma condensare tutta la sua storia in un film presto si è dimostrato impossibile.
A cura di Daniele Lombardi
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