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Mille miglia via

Mille miglia via

Miglia e miglia di solitudine, per non dover tornare mai di Daniela Scotto

Nell’arte del raccontare, soltanto una graffiante ironia, sapientemente dosata, può permettersi di parlare del dramma con il massimo distacco. Non si tratta di eventi storici particolari o di cronache straordinarie: la serpeggiante tragedia narrata in Tra le nuvole è quella di tanti americani che hanno perso il lavoro di punto in bianco a causa della crisi, forse oggi già dimenticata a causa di più gravi ed impellenti preoccupazioni. Eppure, in quegli ambienti desolati dall’improvvisa inutilità di chi non ha più uno scopo nella vita, c’è chi è in grado di eseguire freddamente il proprio lavoro, in mezzo a quelle sedie rimaste vuote, tra quei volti in lacrime, come riescono a fare i protagonisti del film, il navigato Ryan (George Clooney) e la rampante Natalie (Anna Kendrick).

Crudele? Sarcastico? No. Jason Reitman, come già accadeva in Juno (2007) e Thank You for Smoking (2005), sa descrivere con garbo e arguzia anche il contesto più imbarazzante senza ombra di compiacimento. Lo fa affidando tutto alle parole: la sceneggiatura si regge su scambi di battute fenomenali, rapidi ma densi, degni di un serial tv americano. Racconta la più basilare delle storie, ma la condisce con quell’humour freudiano, il classico motto di spirito rivelatore di tante verità, sul quale gli autori americani restano imbattibili, ad esclusione di qualche valida commedia inglese.

Reitman ha inoltre dalla sua anche un occhio affettuoso, cedevole e mai pietoso di guardare alla provincia, che dipinge rendendo vive, reali e sorprendentemente nuove certe situazioni archetipiche che in mani meno estrose non resterebbero altro che clichè. L’atteggiamento ironico, che è la massima forma di lucidità con cui osservare il mondo intorno, non lascia quasi mai spazio al lieto fine. Ogni cosa ritorna al suo posto, l’ordine iniziale si ricostituisce, lasciando sulla pelle quella sensazione, sottile, di non avere speranza.

Viaggi e miraggi nella filosofia Reitman di Matteo Mazza

Il giovane Jason Reitman (non più “solo” figlio d’arte) e il suo pensiero giovane rappresentano una delle novità più brillanti del cinema contemporaneo. Oltre alle idee giovanili, alla musica ricercata (qui il film inizia con una cover funky e contemporanea del classico di Woody Guthrie This Land Is Your Land, cantata da Sharon Jones and the Dap-Kings), alla fotografia realista e agli scenari sempre più accattivanti e dimenticati (qui si balza da una città all’altra degli States) il cinema di Reitman sembra porsi come fresco interlocutore dell’oggi capace di instaurare un rapporto diretto con lo spettatore, in grado di dialogare e di condurre a una visione della realtà più ottimista e, forse, più giusta. Certamente meno contagiata perché si tratta di una realtà nella quale l’essere umano conosce, capisce, cambia anche senza il bisogno di compiacenti pacche sulle spalle.

Dopo la battaglia alle sigarette (quelle che ci sono ma che non si vedono mai di Thank You for Smoking) e dopo l’aborto evitato (tra vomitini nei vasi e coppie solide ma in crisi o viceversa, in Juno) il regista installa un meccanismo simpatico e irriverente che indaga, sotto nuovi punti di vista, le dinamiche delle relazioni senza spostare troppo l’attenzione dello spettatore, senza mai appesantire il discorso con un atteggiamento predicatorio o virtualmente addolcito. Protagonista di un cambiamento semantico (prima è sinonimo di tempo che sta per scadere, poi si trasforma in tempo da vivere), il viaggio in Up in the Air è rappresentato come esperienza della conoscenza che rende l’uomo libero ma pure come forma di solitudine e precarietà. Queste sono le corde toccate da Reitman, che arricchisce tutto con ritmo, ironia e una giusta dose di amarezza che non stona mai con i colori dell’intero film.

Up in the air è un film che non ha paura di nascondersi dietro la precarietà delle relazioni, del mondo del lavoro e degli affetti, perché non cerca banali rassicurazioni. Piuttosto sembra suggerire, talvolta quasi con rabbia, un atteggiamento, uno stile, una ricerca di ciò che può fare la differenza nell’esistenza dell’uomo. Reitman non ha paura a raccontare storie che possono anche apparire scomode, inconsuete, strane. Soprattutto non teme di mostrare personaggi con una vivida capacità di pensare, conoscere, scoprire. Non racconta di un’umanità che si accontenta. Non è il padre di un cinema generazionalista, pessimista e rassegnato. Non si ferma a raccontare stereotipi depressi e sconclusionati. Anzi. Il suo cinema è carico di speranza, anche davanti al fallimento. Un cinema in grado di esaltare il cambiamento, la valorizzazione dell’incontro, lo scambio, l’alterità (Non è, forse, imprevedibile il suo Nick? e non è, forse, un po’ aliena la sua Juno? e non appartiene, forse, a un altro mondo il suo Ryan?).

Curiosità
Presentato alla quarta Festa del Cinema di Roma, il film ha vinto un Golden Globe (su sei nomination) per la miglior sceneggiatura.

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