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Torino Film Festival
Diario, 14 novembre

Una scena da Get LowCome era nelle aspettative il Torino Film Festival si è materializzato finalmente oggi, seconda giornata della rassegna, dopo un venerdì quasi desertico e poco entusiasmante, tanto che è stato necessario un blitz degli squatter Torinesi alla festa d’inaugurazione del teatro Regio per ricordare che a Torino era iniziato il Festival del Cinema. Stamani al contrario l’atmosfera era più dinamica. Le sale si sono riempite di pubblico e sono state diverse le file davanti ai botteghini, a testimoniare la vivacità di torinesi e non per il programma presentato.

Ecco allora che gli accreditati, per evitare le file delle visioni aperte al pubblico, si sono riversati nelle proiezioni anticipate per la stampa. Stamattina fra gli altri è stato presentato Get Low, primo lungometraggio diretto da Aaron Schneider (già premio Oscar 2004 con il corto Two Soldiers) ed in concorso per il FTT. Un vero e proprio biopic su Felix “Bush” Breazeale, vecchio e burbero eremita che nel 1938 (dopo quasi 40 anni di autoisolamento nei boschi del Tennessee) decise di uscire allo scoperto per organizzare un eccentrico “funeral party” quando era ancora vivo e vegeto. Schneider dopo il successo per Two Soldiers, sembra aver mostrato così tanta fiducia da essersi permesso un cast d’eccezione: si passa da un Robert Duvall notevole nella parte del vecchio Felix, fino a un irresistibile Bill Murray nella parte di un becchino dallo humor nero. Il tema del perdono, della colpa e del riscatto è elaborato in modo originale, senza mai sfiorare la retorica. Non convince invece il finale, che pare un elemento superfluo rispetto al commovente monologo conclusivo di un grande Robert Duvall.

Per gli appassionati dei cortometraggi oggi c’è stata anche l’inaugurazione della sezione Corti.Ita che ha aperto il programma con l’anteprima mondiale di Je Suis Simon (la condition ouvrière) di Davide Ferrario, ispirato totalmente all’opera postuma di Simon Weil, filosofa ed anarchica francese, scritta durante la sua esperienza come operaia di fabbrica. La voce fuori campo rilegge (rigorosamente in francese) passi degli appunti della Weil mentre su un bianco e nero rarefatto scorrono immagini della quotidianità operaia. Abbandonando ogni riferimento storico, film di Ferrario catapulta il testo della Weil in una realtà immateriale, a metà strada fra passato e presente: il film è infatti girato nella periferia parigina di L’Ile Seguin dove la Weil aveva prestato le sue braccia nelle fabbriche e che oggi è destinata a diventare “l’isola dell’arte e delle scienze”, con complessi residenziali e nuovi cicli produttivi. La Weil (interpretata da Claudia Landi) sembra così un fantasma che si aggira fra le strade del nuovo e moderno complesso urbano, ricordando la sofferenza devastatrice che ha accompagnato quei luoghi. Nonostante l’ambizioso tentativo di tessere un filo fra passato, presente e futuro nella rappresentazione delle realtà architettoniche e produttive, Je Suis Simon rimane un’opera penalizzata da un stile eccessivamente minimalista, che rischia di far sprofondare il tutto in una dimensione puramente teatrale e didascalica. Non sono stati pochi i presenti che hanno lasciato la sala a metà proiezione. L’apertura della rassegna meritava forse qualcosa di più coinvolgente.

Gli applausi (quasi una standing ovation) non sono mancati invece per Gigante, presentato per la sezione Festa Mobile e già vincitore dell’Orso d’Argento all’ultimo Festival di Berlino. Una favola metropolitana raccontata con dolcezza ed umorismo dal promettente Adrián Biniez, che incanta per lo stile asciutto e sognante. Al centro della narrazione c’è Jara, grande e grosso addetto alla sicurezza notturna di un supermercato di Montevideo. Attraverso la sua sala di controllo e il suo circuito di telecamere puntante dappertutto, Jara sembra quasi un Dio benevolo che si ciba di Metal e cruciverba. Finché non s’infatuerà di un’addetta delle pulizie, diventando il suo personalissimo angelo custode anche fuori dal supermercato. Una struggente La Bella e la Bestia in chiave post-moderna, che sa divertire muovendosi attraverso un gioco di “video nello schermo”, in modo disincanto ed innocente, lontano da ogni sentimento voyeuristico.

E sempre l’uso di “visioni nella visione” è al centro di Record 12, film tedesco che propone un Grande Fratello del “paranormale”, con i fantasmi di una casa ripresi da telecamere speciali di un’organizzazione che lavora alla loro eliminazione. Ben lontano dalla fantascienza di Ghost in the Shell, i fantasmi da sterminare sono umanissimi, nei tratti fisici e nei sentimenti. Ma se l’idea iniziale del soggetto è evocativa ed originale, non si può dire altrettanto di un film che non riesce a raccontarsi davvero e che lentamente sprofonda nell’oblio.

Tanto vale consolarsi gustandosi un film in programma per la retrospettiva sul danese Refn, che è una delle cose più interessanti di questo TFF. A presentare la proiezione serale di Pusher II (la seconda saga della trilogia più famosa della Danimarca) c’è proprio lui: sbarbato, giovane e lindo, parla serenamente di come partorisce la violenza e riesce ad inchiodarci alla sedia fino all’ultimo secondo. Chapeau.

Il mio sabato sera si chiude infine con 45365 di Bill e Turner Ross, a metà strada fra documentario e finzione filmica. 45365 è il Codice Postale di Sydney, Ohio, città natale dei registi da cui sono partiti per fare fortuna ad Hollywood (per altri, come sottolineano in fase di presentazione) per ritornarne a raccontarne la vita con questo loro primo film. 45365 è un omaggio alla provincia americana più profonda, che attraversa decine di storie, scomponendole in altrettanti volti e sguardi, da quelli dei bambini fino ai cittadini più anziani. La piccola città che sa essere mondo a sé e si dilata come un universo, con tutta la sua carica di innocenze, ingenuità e colori. Le riprese dei fratello Ross accompagnano la vita di questa piccola comunità per un intero anno, dalla fiera di primavera fino alla prima neve invernale, con la radio locale che scandisce i tempi e gli eventi. Una finestra ancora aperta su una purezza incontaminata, di cui, altrove, si sente la mancanza.

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