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Pump Up the Volume!

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Forse non ci avrete mai fatto caso, ma il mondo della notte e il popolo delle discoteche non è ancora stato analizzato e descritto dal cinema, sebbene si tratti di un fenomeno rilevante ed estremamente attuale. I motivi sono diversi, ma una delle riflessioni che capita spesso di fare quando un film tocca marginalmente questo universo è rivolto alla difficoltà che richiede per essere filmato. La discoteca è un non luogo del divertimento, un ambiente collettivo dove si intrecciano relazioni sociali ma dove la massa è in realtà composta da monadi indipendenti.

In questo aspetto la discoteca è come il cinema, un intrattenimento collettivo vissuto in modo prevalentemente individuale. Difficile rendere in modo visivo un luogo semanticamente così complesso, situazione aggravata dalla continua contrapposizione di oscurità e di luci fortissime. Non è troppo lontano dal vero definire che le scene ambientate in una discoteca possono essere intese come una sorta di banco di prova per un regista, un esame attraverso il quale molti passano ma pochi escono indenni. Michael Dowse accetta la sfida e gioca la carta del falso documentario per raccontare la storia di un deejay di fama internazionale, descrivendo la sua vicenda come una sorta di Barry Lyndon della musica tecno. Il mezzo linguistico è funzionale nel raccontare un uomo e la sua leggenda, ma anche nel presentare il misterioso caso della sua improvvisa scomparsa dalla scena pubblica. La macchina da presa si insinua nella vita di Frankie Wilde come una mosca sul muro, ci mostra la sua vita come se fosse vista attraverso l’occhio di un testimone (anche se gran parte del film viene raccontata con il linguaggio della fiction pura). L’evoluzione drammatica del personaggio lo conduce agli estremi della parabola del successo, ma solo quando tutto va male (e forse non potrebbe andare peggio) un’intuizione permette di risalire la cresta dell’onda, anche se in un mondo completamente differente.

Il titolo del film fa riferimento a una frase usata come slang in Inghilterra alla fine degli anni Novanta e riferita al dj della BBC Pete Tong (che recita nei panni di se stesso nel film) e che significa “sta andando tutto male”. Il punto di riferimento cinematografico più evidente a cui lo stesso Michael Dowse ha fatto rierimento è il mockumentary This is Spinal Tap, dedicato a sua volta a una finta rock band. It’s all gone Pete Tong è tra i pochi film ambientati a Ibiza in cui non ci sono solo fatti, strafatti e strafighe, anzi mantiene molto di più di quello che promette.

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