Non sarà un’avventura
Nel solco della tradizione, la fabbrica del sogno americano parla ancora una volta della ricerca e della realizzazione del sogno. Si oscilla nuovamente tra il racconto dell’America degli anni Cinquanta, dove la famiglia e la casa sono la massima aspirazione dell’uomo Comune, e il presente dove la minaccia incombe sull’ambiente e il significato degli affetti. Il confronto è sempre lì, fra due Americhe di tempi diversi che si specchiano l’una nell’altra e che succhiano a vicenda il senso della propria esistenza: il passato cerca di capire quale sarà il suo destino mentre il presente guarda nuovamente alle spalle per cercare le proprie origini. Così un nonno mancato e un bambino, il primo ha dimenticato il dono dell’amore, il secondo non l’ha mai ricevuto. si ritrovano in una casa sospesa in aria verso gli orizzonti aperti.
È il prologo della vita di Carl Fredricksen che si conclude con la casa in volo attaccata a una moltitudine di palloncini colorati a segnare il senso più intimo del film: a una vita appesantita dalle gioie e dai dolori dell’amore e della morte resta ancora una direzione possibile da esplorare: il cielo, la leggerezza, l’amore per gli altri ‘che ti sembra di volare’. Up, il luogo dell’anima e dello spirito. Niente è mai perduto definitivamente, anche quando la vita volge al tramonto esiste ancora un significato da assegnare all’ultimo di strada: la ricerca di un erede che prosegua il cammino iniziato. Nonostante la poesia di alcune immagini, la casa nel cielo, l’ultima corsa di Ellie sulla collina, si sente la mancanza dell’audacia di Wall-E e Ratatouille: la morale della vita coniugale come avventura attinge direttamente all’immaginario degli anni Cinquanta, a ulteriore prova del fatto che l’attuale sogno raccoglie l’eredità di quell’epoca dove tutto sembrava ancora possibile. Anche i percorsi dei due personaggi principali non sono nuovi. Carl deve elaborare il lutto della perdita di Ellie per ricordarsi che il ricordo delle persone care non ha nessun significato se non nell’affetto verso il prossimo; a Russell spetta invece il compito di abbandonare l’idealismo infantile per essere davvero utile agli altri e a se stesso, oltre che imparare le vere difficoltà della vita: «Non mi aspettavo così la natura selvaggia. È selvaggia!».
Un interrogativo permane infine nella testa dello spettatore: sembra un poco improbabile che l’anziano Carl possa incontrare il mito della sua infanzia, che dovrebbe avere almeno venti anni più di lui, ancora vivo e incredibilmente arzillo, tanto da ingaggiare con lui una lotta all’ultimo sangue. Sarà che l’esplorazione della natura selvaggia mantiene giovani? La Pixar può volare più in alto, ma anche questa volta, seppur per qualche istante, ci ha portati nel mondo dei sogni.
A cura di Fabia Abati
in sala ::