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I’m Gonna Live Forever?

I’m Gonna Live Forever?

Fame è un musical, o più propriamente lo si può definire una commedia musicale, frizzante e adeguato nella ritmica ai gusti del pubblico adolescenziale cui è preferenzialmente rivolto. Ci sono storie di formazione al suo interno, che hanno un significato profondo e in cui tanti ragazzi potranno per certi versi immedesimarsi. Ci sono testi di canzoni che raccontano ed esprimono stati d’animo che quasi tutti sperimentano in prima persona quando iniziano a capire e a costruire se stessi e il proprio futuro. Manca però la profondità antropologica dell’originale di Alan Parker, quella drammaticità (talvolta sconfinante nel tragico) che caricava di una spinta emotiva incredibile i protagonisti della sua pellicola e che poi si scatenava nell’energia delle note di I’m Gonna Live Forever: una canzone che aveva il coraggio di gridare il sogno contro il grigio o il nero della realtà.

Insomma, la “versione 2009” risulta un po’ addolcita e alleggerita. Pur restando l’intreccio multietnico e socio-economico degli allievi (tutti personaggi nuovi che non si propongono di imitare quelli dell’originale), non ci sono più infatti tematiche importanti come la differenza razziale bianchi/neri, l’analfabetismo, l’omosessualità, la violenza di quartiere, la separazione dei genitori e la solitudine interiore. D’altro canto, ci si concentra di più sul mondo dello spettacolo, in cui il personaggio di turno deve misurarsi affrontando la sfida con se stesso ma anche con gli altri (in più di un’occasione notiamo i ragazzi messi a confronto nell’esecuzione dello stesso balletto, mentre il musical di Alan Parker tendeva a regalare a ogni aspirante artista un momento a se stante). Un dettaglio che la sceneggiatura riesce a descrivere meglio rispetto all’originale è la scena del tentato suicidio: nel film di Tancharoen infatti questo gesto si connette molto più solidamente all’intera vicenda e la scena è a tutti gli effetti drammatica, mentre in Saranno famosi si risolveva in un imprevisto e poco efficace risvolto umoristico. Eppure, a parte quest’eccezione, gli allievi dell’Accademia d’Arte di New York del film di Parker erano interiormente più adulti e abituati a scontrarsi con i problemi consistenti della vita reale al di fuori del palcoscenico. Qui la pianista Denise vive la sua battaglia personale con il padre per potersi dedicare al canto e al genere hip hop anziché al pianoforte classico, ma un conflitto del genere non è minimamente paragonabile a quello tra Ralph, ragazzo cresciuto troppo in fretta, e la madre per difendere la sorella minore da un mondo fatto di violenza da una parte e ignoranza dall’altra. Peccato poi che non ci sia più, sotto una forma anche nuova e diversa, un personaggio come quello che era stato Bruno, che dedicava tutte le sue energie all’arte e che ci credeva contro tutto e contro tutti. Qui semmai troviamo l’aspirante regista Neil, che chiede senza esitazione l’aiuto finanziario di papà per poi accorgersi di esser stato ingannato.

Quel che rimane del film di Parker è la dimensione corale, ben rappresentata da una sequenza musicale all’inizio e dal finale, che è un crescendo emotivo, estetico e musicale a tutti gli effetti: un omaggio al ballo, al canto e alla musica che si trasforma in un inno alla potenzialità visiva del cinema. La scenografia ben costruita, il gioco delle luci, lo spirito di unione che contagia i ragazzi, tutto corre nella direzione di far avvertire quella forte scarica di energia che Saranno famosi aveva fatto solo intravvedere nella celeberrima scena del ballo per la strada.

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