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Quentin va alla guerra

Quentin va alla guerra

Una premessa chiara, semplice e concisa: se Tarantino vi piace, questo film vi farà impazzire. Se non vi piace, lo odierete. Vie di mezzo? Direi di no, il modo di fare cinema del beneamato Quentin non le prevede. E Bastardi senza gloria, in fondo, non è che un distillato della poetica del regista di Knoxville. Gli elementi ci sono tutti e ognuno è portato all’estremo: il pulp e il kitsch, il citazionismo alto e la bassa macelleria, il manierismo e la caciara. Quindi, in qualità di spettatori, sappiate che vi tocca prendere posizione. Naturalmente potete decidere voi in che modo farlo. Che siate pro o contro, avete di fronte a voi una miriade di possibilità. Uno degli aspetti interessanti del lavoro di Tarantino è proprio la sua capacità di suscitare le letture più disparate: lo si può prendere dal lato pop e da quello cinefilo, da quello metaforico o anche da quello spensieratamente cazzone. Vale tutto. Volete vedere questa pellicola come una metafora della società della comunicazione dove il peggio che a un uomo possa capitare è che la sua maschera venga distrutta? Ottimo. Preferite invece stragodervi il fatto che Brad Pitt tiri fuori la mascella e faccia scalpare centinaia di nazisti, stando ben attenti a non farvi passare per la testa neanche mezza pippa semiotica? Va bene uguale.

Per come la vedo io, questo è un film che non sposta il cinema in avanti (cosa che Tarantino ha dimostrato di saper fare, basti pensare alla cronologia impazzita di Pulp Fiction). Semmai lo spinge verso l’alto, perché tutti lo possano vedere. Al regista non interessa cercare un linguaggio nuovo. Gli basta ingoiare quelli vecchi, triturarli, metterci sotto un po’ di polvere da sparo e farli esplodere come fuochi artificiali nel modo più spettacolare possibile. Da questo punto di vista, l’ambientazione “storica” non è un limite, bensì un’opportunità. Il fatto di ambientare le vicende durante la Seconda Guerra Mondiale, pare infatti un pretesto per calare lo spettatore in un contesto del quale si dà per scontato che conosca le coordinate, in modo da poterle frantumare rumorosamente. D’altra parte, l’incipit è molto chiaro: “C’era una volta, nella Francia occupata dai nazisti”. Come a dire che la cornice è quella che ben sapete, però fate attenzione, da qui in avanti si lavora di fantasia.

Non che sia così facile, in realtà, stare al gioco. Lo scherzo è pesante, digerirlo non è così immediato. Mi viene in mente la volta in cui, nel periodo in cui in sala c’era 300, nella redazione di Hideout si accese una lunga discussione sull’eticità della pellicola di Snyder, accusata da molti di razzismo. La mia posizione era che il film fosse talmente esagerato e clownesco da non poter essere preso sul serio. Un collega mi disse: «E se facessero la stessa cosa con i nazisti invece che con gli spartani?». La mia risposta fu: «Se Hitler fosse alto tre metri, avesse tre teste e combattesse un Churchill che sputa fuoco non credo mi scandalizzerei». Fatti i dovuti distinguo (i nazisti qui non sono certo presi a modello), devo dire che qualche difficoltà più del previsto a entrare nello spirito tarantiniano l’ho incontrata. Probabilmente la Seconda Guerra Mondiale ha lasciato meno cicatrici nell’inconscio collettivo americano che non nel nostro, fenomeno comprensibile visto che loro non l’hanno avuta in casa e sono stati fin dall’inizio dalla parte giusta. Fatto sta che durante la prima mezz’ora di film, ripensando a mia nonna partigiana e a mio nonno prigioniero di guerra, qualche domanda sul buon gusto della pellicola me la sono posta. Poi il Grand Guignol ha avuto la meglio, togliendomi ogni remora in proposito.

In conclusione, pollice alzato. Tarantino promette intrattenimento e intrattenimento elargisce a piene mani. Il carrozzone, grazie a scenografie e costumi di altissima qualità, è variopinto come non mai, le attrazioni sono tante e i numeri spettacolari. Gli applausi scrosciano a scena aperta per un cast motivatissimo e ben diretto (che Mike Myers avesse nelle sue corde certe macchiette era già noto, ma che Brad Pitt fosse altrettanto portato per la farsa è una sorpresa gradevole) e le due ore e mezza della proiezione volano letteralmente via. Un solo rischio: la versione italiana. Il film, in origine (cioè come l’abbiamo visto noi), è stato infatti realizzato in quattro lingue. La loro alternanza, ai fini della trama ed espressivi è fondamentale. Va da sé che il sottotitolo è l’unica via che abbia senso percorrere. In un sussulto di civiltà che francamente non ci si aspettava, pare che la distribuzione possa avvenire sia in versione doppiata (non oso pensare alla sciagura di una traduzione che trasforma gli idiomi stranieri in accenti stereotipati) che sottotitolata. Fosse vero, sapete già verso che sala dirigervi.

Nota al doppiaggio di Alberto Brumana
Dopo aver visto il film nella versione italiana, bisogna ammettere che questa volta è stato fatto il miglior lavoro possibile. Pur preferendo la versione originale, che permette di apprezzare meglio la bravura di Pitt e Waltz, in quella nei nostri cinema è stata doppiata solamente la parte in inglese, mentre quelle in tedesco e in francese sono rimaste con i sottotitoli. Rimane il problema della traduzione del siciliano e del fatto che le voci dei protagonisti cambino nel passaggio da una lingua all’altra, ma meglio di così era davvero difficile fare.

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