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La frusta, il rimorso e il tempo del perdono

La frusta, il rimorso e il tempo del perdono

C’è un luogo. Un circo che è fatto con un telo blu, ombroso e pieno di misteri, un luogo oscuro che però fa sognare, lontano certamente dall’idea di circo freak burtoniana e pure da quella happy felliniana. Un circo che racchiude in se il senso di un film che vuole raccontare una nuova declinazione dell’amore secondo il cinema di un vecchio maestro come Rivette (81 anni, 31 film), che però, prima di delineare il movimento dei sentimenti, si sofferma su quello dei sensi di colpa. Questione di punti vista è anzitutto un film su ciò che blocca, ostacola, ferma l’evoluzione dell’essere umano. È un film che sfrutta la messa in scena circense, ma del tutto teatrale, per estrarre dall’animo dei suoi personaggi i ricordi di una vita passata all’ombra, dietro un nascondiglio, sotto il peso del rimorso.

È quello che accade alla dolce Kate (Jane Birkin) che, d’un tratto, dopo il fortuito e decisivo incontro con l’italiano e girovago/viandante Vittorio (Sergio Castellitto), si trova a dover riconsiderare un passato segnato da un errore, una fatalità, un incidente avvenuto sulla pista di quello stesso circo anni prima che l’ha spinta ad abbandonare la scena. Il film di Rivette è quindi una nuova riflessione sull’organicità del tempo, sulla fisicità del pensiero, in quanto il corpo della gentile Kate è segnato dal tempo, dai graffi del passato. Grazie alla complicità di Vittorio (paladino della giustizia e principe azzurro, regista e attore), fin dall’inizio segno e significato del cambiamento interiore e esteriore di Kate (che è come la donna che piange graziosa sulla tomba il suo amore defunto), quando il loro incontro è sì segnato dalla casualità, ma è pure prova che nella vita di Kate qualche cosa non funziona (la macchina guasta è solo la vetta della montagna), le carte cominciano ad esser scoperte. Rivette insiste, senza troppo pudore, sull’importanza del movimento del tempo (prima dentro il corpo, poi fuori) che in questo film, ma in tutto il suo cinema, è un luogo, un personaggio e una dimensione da esplorare col pensiero. E dai graffi dell’animo, Kate, nel finale, passa ai graffi sulla pelle, a testimoniare l’esigenza, non solo formale, del perdono.

Il circo in cui si svolge la vicenda assume una connotazione allegorica che rimanda all’ignoto, alla magia, che spinge lo spettatore a considerare la valenza dei rischi, delle prove da superare, dei tempi da rispettare, delle comparse da ascoltare, degli imprevisti da non sottovalutare. Il circo, questo circo di rivettiana invenzione e cioè il cinema, è il segno della vita di Kate. Un luogo onirico in cui tutti, alla fine, vivono felici e contenti e restano ancorati ai loro ruoli di personaggi funzionali: chi narratore, chi aiutante, chi vittima, chi sopravissuto e chi salvatore o traghettatore. Questione di punti di vista rimanda anche a un’altra sfera magica e misteriosa come quella fantasmatica. Il personaggio di Kate è allineato con tutta una serie di personaggi femminili del cinema di Rivette (da Suzanne Simonin in La religieus (1966) a Sandrine Bonnaire in Secret défense (1998), dalla Pauline di Bulle Ogier in Out 1: Noli me tangere (1971) alla Luise di Marianne Denicourt di Alto, basso, fragile (Haut bas fragile, 1995), in bilico tra la vita e la morte, perché Kate ha la morte nell’anima, sembra trascinarsi, è perseguitata da un errore che non ha commesso. Il circo è quindi il luogo della verità, ma anche della liberazione dei propri assilli. Una finzione che spezza le ambiguità, lascia respirare e fa muovere. Che accende la luce verso la diversità, la trasformazione di se, per amore o per forza, per caso o necessità. Un’esperienza fuori dal tempo e garbata.

Curiosità
Presentato in Concorso alla 66. Mostra del Cinema di Venezia. Sergio Castellitto era stato già interprete per Rivette nel film Chi lo sa? (Va savoir, 2002). Jane Birkin per Rivette è stata Liz in La bella scontrosa (La belle noiseuse, 1991) ed Emily in L’amore in pezzi (L’amour par terre, 1984).

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