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L’irrinunciabile dolcezza di un pugno nello stomaco

L’irrinunciabile dolcezza di un pugno nello stomaco

Se pensi che una cosa sia impossibile, sei tu che la rendi impossibile
Bruce Lee

Il regista messicano Fernando Eimbcke, già autore di Duck Season (2004), con Sul lago Tahoe dimostra di essere un talento rarissimo. Il suo film (premiato al 58mo Festival di Berlino e con già sulle spalle più di venti riconoscimenti internazionali) è un piccolo capolavoro sia dal punto di vista stilistico sia da quello narrativo, una pellicola che ha la capacità straordinaria di raccontare un dramma sottovoce, senza gridare, colpendo allo stomaco lo spettatore con la forza di una carezza.
Già dai primi minuti di pellicola si nota l’atipico lavoro visuale di Eimbcke, che concentra gli 81 minuti del film in lunghi piani sequenza a macchina fissa, concedendo allo spettatore una visuale ampia, dalla quale può vedere tutto pur rimanendo distaccato: il regista sembra capovolgere così i canoni della società voyeuristica che oggi “zoomma” su ogni cosa, anche sul dramma più interiore. Le scene sono intervallate da numerose dissolvenze in nero, come a rappresentare dei silenzi cinematografici, degli attimi di riflessione del protagonista, il pudore del regista stesso (il film è anche autobiografico). Ciò che in definitiva non si può vedere ma si può solo vivere.

Dal punto di vista narrativo la maestria di Eimbcke sta nel costruire alla perfezione la storia e i personaggi senza inutili dialoghi o voli pindarici, ma solo ricreando atmosfere intime e surreali, regalandosi perfino momenti d’umorismo. Il regista spinge Juan, il giovane protagonista della storia, in un confronto con realtà lontane dal suo microcosmo familiare: un pigro meccanico messicano, una giovane madre aspirante punk, un ragazzo con la passione delle arti marziali (immaginari che fanno eco ai paesi di produzione del film: Messico, Usa e Giappone). A loro modo, tutti questi personaggi faranno diventare la fuga di Juan una sorta di ricerca (di un pezzo di ricambio dell’auto, ma non solo), condita da piccole e casuali lezioni di vita quotidiana. E se il fan di Bruce Lee convince Juan che non è impossibile sostituire un pezzo che si è rotto, anche il vecchio meccanico con il suo cane insegnerà al giovane che nella vita il distacco può essere un avvenimento del tutto incomprensibile, ma naturale. Alle volte perfino una scelta. È in questo modo, attraverso un confronto con nuovi mondi, che, sembra dirci Eimbcke, Juan elabora il suo lutto nell’arco di una sola giornata.

Non è finita: proprio sui titoli di coda si rimane disorientati nello scoprire che il lago che dà il titolo al film non ha mai fatto capolino, mentre è solo citato come feticcio, come un falso ricordo, come, forse, meta futura. Si intuisce presto che questo luogo (o non-luogo) ha una forza simbolica proiettata nel futuro della vita di Juan, e, inevitabilmente, nel futuro di tutti noi.
Sarà allora che dalla sala usciremo devastati. Ma con un sorriso stampato sulle labbra. Piccolo e prezioso. Come questo film.

Curiosità
Nel film il cane del vecchio meccanico si chiama Sica: è un voluto omaggio all’attore italiano Vittorio De Sica.

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