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cultura dell'immagine e della parola

Più violenza, vi prego. Più bling-bling!

Più violenza, vi prego. Più bling-bling!

Posso dirlo? Sono deluso. Sì, perché io un po’ di aspettative me le ero anche create. Cioè, è ovvio che un biopic come questo difficilmente possa rivelarsi un capolavoro. Però è anche vero che i film dedicati alle vite dei musicisti, vere o immaginarie che siano, è raro che deludano. Basti pensare a esempi alti come Bird di Clint Eastwood (1988), The Doors di Oliver Stone (1991) o Mo’ better blues di Spike Lee (1990). Ma anche a filmetti senza pretese eppure efficacissimi come Great Balls of Fire (Jim McBride, 1989) e La Bamba (Luis Valdez, 1989). E poi il caro vecchio Marshall Mathers, aka Eminem, ci ha dimostrato con Eight Miles che l’hip hop può essere un ottimo soggetto per una pellicola godibile anche dal pubblico italiano, se opportunamente sottotitolata.

Che cosa non funziona, dunque, in questa biografia del buon Biggie Smalls, uno che qui in Italia la maggior parte di noi l’ha scoperto solo post-mortem grazie al truzzissimo tributo di Faith Evans e Puff Daddy sulle note di Every breath you take? La mielosità. Ecco che cosa non va. Tu vai al cinema, in luglio, con tutto quello che comporta andare al cinema in luglio, e ti aspetti una bella botta di vita in stile gangsta, con i grillz, la spacconaggine, l’arguzia nelle rime e la violenza della strada in primo piano. Invece ti becchi oltre un’ora e mezza di intrecci amorosi, amicizie tradite, rispettate e riconquistate, cornificazioni e ripicche sentimentali. Una roba che, a tratti, tra matrimoni precipitosi e figli sfornati a ritmo più che notevoli, ricorda più Settimo Cielo che non la biografia di uno che si è fatto sparare in pancia a venticinque anni.

Il guaio, se volete sapere come la penso, è che a fare il produttore esecutivo c’è finito proprio Sean “Puffy” Combs. Uno che è stato sì testimone degli eventi, ma che ha anche una visione inevitabilmente molto di parte delle circostanze (tuttora poco chiare) che portarono alla morte di Biggie. Il risultato è un film dove tutti i personaggi principali – da Notorious allo stesso Puffy, da Faith Evans a Lil’Kim, passando per Tupac, che in teoria è quello che a un certo punto ha fatto partire il casino – sono fondamentalmentamente dei bonaccioni, più o meno tormentati ma comunque pieni di buoni sentimenti. L’unico vero cattivo, per una decina di secondi pare essere il manager della Death Row, l’etichetta (guarda caso) rivale di quella di Puff, che sembra fomentare la violenza. Per il resto, tutto il marcio è affidato a qualche telefonata anonima, mentre i nostri eroi se la scopazzano e poi si pentono e poi ritornano insieme e scopazzano ancora un po’. A un centro punto, in un sussulto di autoironia, è proprio il personaggio di Sean Combs a dirlo: «Sembra di essere in una telenovela». Nessuno ha riso in sala, dopo questa battuta. Ma dalle increspature nella forza, credo di aver colto intorno a me molti sorrisi tesi.

A tenere ben saldo sotto il livello di sufficienza il film, infine, ci si mette la combo data da un doppiaggio poco credibile (ma, in fondo, come può essere credibile un rapper del ghetto di NY che parla in italiano?) abbinato alla mancanza di sottotitoli sulle parti in versi. E qui si entra in una polemica che non riguarda solo questa singola pellicola, ma l’intero sistema distributivo italiano. Va bene, ci ritenete troppo chiusi di mente per poter fare a meno del doppiaggio. Ma allora come potete pensare che noi si riesca a stare dietro a gente che rappa in slang? Io, che l’inglese lo parlicchio anche bene, non sono andato oltre la comprensione delle tematiche di base del cantato. M’immagino chi ne è digiuno quanto possa godersi questa visione. E pensare che in Eight Miles, con qualche riga in sovrimpressione, la questione era stata brillantemente risolta.

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