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Le regole (federali) del sospetto

Le regole (federali) del sospetto

‘L’attraversamento’ di quel confine non solo fisico ma soprattutto simbolico verso l’integrazione (sociale prima ancora che legale), rappresentato attraverso un melting-pot narrativo intriso di dolore e sogni a stelle&strisce: questo l’intento del sudafricano Wayne Kramer che, autore anni fa di un omonimo cortometraggio, offre la propria versione dell’America ricorrendo a quel modello di racconto corale tanto in voga a Hollywood (dal pluripremiato Crash al mediocre Babel) e che sembra essere diventato l’unico modo per portare in scena le contraddizioni della multiculturalità e, in questo caso, le varie sfaccettature del mondo dell’immigrazione.

Come nella locandina che, dall’alto, rappresenta col bianco e rosso della bandiera le grandi arterie autostradali americane, Kramer sceglie la ‘veduta aerea’ per unire i luoghi della vicenda (California, Messico, interni familiari) e realizza un patchwork completo ma forse troppo preciso, al limite del didascalico, di umanità migranti che ruotano attorno alla figura di Max Brogan, agente speciale dell’ufficio Immigrazione clandestina e Controllo delle frontiere. È lui, poliziotto dall’animo pietoso e dal volto sofferente, interpretato da un Harrison Ford mai così segnato dagli anni, il comune denominatore di tutte le sottotrame che, nella migliore (?) tradizione del genere, finiscono per incontrarsi, “scontrarsi” (Paul Haggis ha fatto scuola) secondo le regole del caso, della necessità o di un incastro drammaturgico che alla fine riporterà tutti, o quasi, i tasselli del puzzle al loro posto.
Accanto a Brogan e all’assistente sociale Denise Frankel, sposata con un addetto al rilascio dei permessi di soggiorno (sic!), quindi dall’altra parte della barricata e che sfrutta la sua posizione per ricattare sessualmente una ragazza, vi è un campionario di storie d’immigrazione, oltre alle diverse declinazioni di un sogno comune: l’ebreo ateo che riscopre la sua fede per ottenere il permesso di lavoro; l’adolescente coreano che entra in una baby gang e spiega meglio di un americano al padre cosa sono oggi gli Usa («Qui si diventa americani solo con la forza delle armi, prendendoti ciò che vuoi»); il collega iraniano di Brogan, eroe a metà ancora vittima dei retaggi familiari e imbarazzato da una sorella troppo libertina; l’innocente visione del mondo dell’orfanella nigeriana e la ragazza-madre messicana la cui unica colpa è aver «pagato il coyote sbagliato per passare il confine»; il ritratto di Taslima (il più toccante oltre che meglio riuscito perché non forzosamente legato nella diegesi agli altri), ragazza bangladese sospettata di jihadismo ed espulsa a causa di un tema in cui si permetteva di rileggere criticamente le vicende dell’11 settembre.

Il limite di questo caleidoscopio di punti di vista, che culmina nella cerimonia-climax delle ‘naturalizzazioni’ è una messa in scena di maniera, a volte manichea nelle sue distinzioni e che tuttavia ha un merito: gli ossimori irrisolti di cui vive il film fanno luce su tematiche altrimenti sconosciute e i ‘finali’ contrastanti raccontano che si può vivere in America. Ma c’è un prezzo e in questa compravendita non tutti sono in grado di pagarlo, in special modo i più poveri.

Curiosità
La citazione (involontaria?) di Blade Runner con Harrison Ford/Rick Deckard/Max Brogan ad esaminare e ingrandire al computer foto dalla scena del crimine.

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