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Paese che vai, usanza che trovi

Paese che vai, usanza che trovi

Se l’antico tema del confine quale luogo del non-ritorno, dell’ignoto e tana dell’orco è stato di recente affrontato da un’opera pregna e degna quale Frontiers e se a sua volta il giovane turista sprovveduto in cerca di sesso facile che va incontro a infausta nemesi è figura a cui ha ampiamente attinto Hostel, pare che già dalle premesse Bordeland non ci riservi nulla di nuovo.
Talvolta le apparenze ingannano, ma non è il caso dell’opera ultima di Zev Berman che, non pago della carenza d’originalità, utilizza topoi classici mettendoli insieme alla rinfusa.

Se il prologo fatto di lente e gustose sequenze torture-porn promette bene, grazie anche al realismo conferito dalla lingua spagnola, la pellicola dopo la scoccata iniziale non sa decollare, perdendo al contrario d’intensità ed efficacia mano a mano che il film prosegue. Troppo belli i protagonisti, troppo poco scavate le psicologie, quasi che per fare horror basti dichiarare che i fatti siano tratti da una storia vera. Ma a maggior ragione una storia vera va fatta sentire tale.
Quel che Borderland appare è invece a tratti l’involontaria, goffa citazione di Dal tramonto all’alba che, toccando un po’ tutti i generi e passando dai bordelli di Tijuana ai Luna Park allucinogeni, fa finire i suoi personaggi a limonare in un camposanto. Si va da battute fuori luogo quali «Tu pensi che la morte sia triste? Io penso che la vita quando non venga vissuta appieno sia anche più triste» pronunciata dalla bella mentre annusa un fiore colto da una tomba, a tratti di sceneggiatura decisamente evitabili (il bello-e-biondo del gruppo che in un accesso d’ira a vanvera prende a sprangate la jeep farcita di psicopatici assassini). Su tutto capeggia l’immagine del gruppo d’invasati ipertatuati, capitanati da un incrocio fra Andy Garcia e Enrique Iglesias, che si trova a galleggiare nel terreno di confine tra il pubblicitario e il videoclip.

Se, in tempi di Martyrs, il tema della tortura appare quanto mai fertile e in grado fornire copiosi spunti alla creazione di opere degne di nota, al contrario la pellicola di Berman manca di spessore. Un peccato se si tiene conto dell’interessante fotografia di Scott Kevan che, sgranata e arsa, sa regalarci trovate quali le inquadrature allucinate del Luna Park, o citazioni da western di varia estrazione. L’intera coerenza filmica viene però meno e il piano della seconda lettura ne risulta irrimediabilmente compromesso. Con Borderland si resta quindi ancorati a un narrazione di superficie che, in conclusione, lascia in attesa di un qualcos’altro, un’aggiunta, una nota a margine, che però non giunge a soddisfare.

Curiosità
La pellicola si basa su un caso di cronaca del 1989. In quell’anno lo stesso Berman fu fermato alla frontiera messicana da una pattuglia di poliziotti alla ricerca dello studente texano Mark Kilroy. Il cadavere di Kilroy venne ritrovato un mese dopo la sua scomparsa, nel Ranch Santa Elena, Matamoros, insieme ai resti di altre 14 vittime. Dietro gli omicidi, un gruppo di narcotrafficanti guidati da El Padrino Adolfo de Jesús Constanzo che, per invocare la protezione degli dei, praticava sacrifici umani secondo il culto Palo Mayombe.

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