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cultura dell'immagine e della parola

Una nazione depressa

Se vuoi vedere il film con la traduzione italiana, scarica i sottotitoli su ItalianSubs

Metti che nasci nero, i tuoi ti abbandonano e vieni adottato da una coppia di bianchi in un quartiere della periferia londinese dove le persone di colore sono viste più o meno come dei mostri. Ti aspetta una vita dura, non credi? Già, ma intanto aggiungici anche che la coppia in questione è formata da due persone anziane, considerate ben oltre l’età in cui è lecito avere un figlio. Si mette veramente male, no? Ok, però tieni anche conto che sei un maschietto, ma il tuo nome è da femminuccia: Carol. Ah, dimenticavo. Il periodo in cui tutto questo accade è a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, nel pieno di quel declino economico che vide emergere e regnare con pugno di ferro in guanto anch’esso di ferro Margaret Tatcher. Roba da far tremare le ginocchia, insomma.

La pellicola del trentasettenne scozzese Jon S. Baird, al primo lungometraggio dopo il corto It’s a Casual Life (2003) parte proprio da qui, da una figura, quella di Carol “Cass” Pennant, che se non fosse realmente esistita sarebbe difficile immaginare. Un emarginato al cubo: troppo nero per i bianchi ma di cultura troppo bianca per i neri, incompreso dalla maggior parte dei suoi pari per motivi razziali e spesso anche dalla propria famiglia (adottiva) per motivi anagrafici. Un antieroe che trova nella sciarpa di una squadra di calcio (il West Ham) la propria identità, nella violenza la propria ragion d’essere e nel branco la propria dimensione sociale. La sua storia, in fin dei conti, è quella di un riscatto obbligato, la cui unica alternativa è – ragionevolmente – la morte.

Il film procede su binari corretti ma certo non sorprendenti, utilizzando (bene) una narrazione “a posteriori” capace di giocare con la suspense senza comunque togliere il fiato. Al netto di una sceneggiatura senza buchi e di una regia pulita, i veri punti di forza di questo lavoro sono altri. Le prove convincenti degli interpreti, una colonna sonora intrigante a base di ritmi in levare e soprattutto una ricostruzione eccellente dell’epoca tatcheriana realizzata attraverso buone scelte scenografiche e costumistiche ma anche grazie a un uso saggio di materiali di repertorio presi dai telegiornali dell’epoca. La mancata distribuzione della pellicola, azzarderei, potrebbe dipendere proprio da questo: si tratta di una storia troppo inglese, legata a un momento storico che al di la della Manica risveglia ondate di ricordi (o più probabilmente di incubi) ma che pochi spettatori italiani, per ovvi motivi, sarebbero in grado di apprezzare fino in fondo.

Curiosità
Se c’è un film da vedere in lingua originale sottotitolata piuttosto che con doppiaggio italiano, è questo. Le diverse varianti linguistiche utilizzate, dall’inglese della regina al cockney, passando per lo slang nero e il patois, rappresentano infatti uno dei principali canali di definizione dell’identità dei personaggi principali. In una pellicola che parla fondamentalmente di accettazione ed emarginazione, non sono sfumature sulle quali si possa sorvolare.

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