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Quello che le donne non dicono

Quello che le donne non dicono

Come avrà fatto Tamar Yarom a riunire davanti alla telecamera sei donne soldato per raccontare, apparentemente senza il minimo controllo preventivo, avvenimenti ed episodi che non ci saremmo mai aspettati di ascoltare neppure da voci anonime e volti oscurati? Difficile rispondere, fatto sta che il piccolo miracolo è riuscito, rendendo questa inchiesta, al di là di ogni ragionevole dubbio, un documento di eccezionale portata sul piano giornalistico. Non che l’aspetto realizzativo sia da trascurare: pur disponendo di soli immagini di repertorio (peraltro visivamente molto forti), il film le utilizza appropriatamente in efficace alternanza con i volti delle sei intervistate, instaurando un difficile equilibrio che giova alla scorrevolezza della pellicola. Comunque, non è certo questo a rendere To See if I’m Smiling un pugno nello stomaco per lo spettatore.

Probabilmente già il fatto che i militari intervistati fossero tutti di sesso femminile – Israele è l’unico paese in cui esiste il servizio di leva obbligatorio per le donne – avrebbe dovuto costituire, nelle intenzioni dell’autrice, una prima importante provocazione. Ma il pregiudizio di genere passa rapidamente in secondo piano nel momento in cui, tra una testimonianza e l’altra, ci si rende conto di essere stati introdotti in un mondo alla Full Metal Jacket o alla Jarhead, trasferito però nella vita di tutti i giorni. Il contenuto dei racconti basta, già di per sé, a colpire profondamente: si va dal pestaggio di due giovani civili, consapevolmente “coperto” da una relazione compiacente, alla violenta perquisizione delle donne palestinesi alla frontiera, passando per la profanazione dei cadaveri dei nemici uccisi. Fino ad arrivare ai due episodi più crudi e drammatici di tutto il film: le torture messe in atto da una delle protagoniste sui prigionieri, come rappresaglia per il ferimento di un’altra soldatessa, e la morte di una bambina affidata alle cure del giovane medico del campo, che nel corso del racconto non riesce più a trattenersi e scoppia (finalmente, verrebbe da dire) in un pianto disperato.

Già, perché ciò che davvero turba ed emoziona in questo documentario non sono tanto gli orrori della guerra, pur difficili da sopportare in parecchie occasioni: sono piuttosto l’atteggiamento delle intervistate, le loro reazioni assolutamente composte di fronte alla banalità della morte, la loro evidente passione per il combattimento e per le responsabilità di comando, i loro sorrisi (da qui il titolo) anche di fronte alle peggiori nefandezze compiute dai commilitoni. Un approccio per certi versi inevitabile, come si spiega a più riprese nel corso del film: chi non si adegua alla “normalità” del contesto di guerra, chi non si abitua a considerare routine la violenza e l’oppressione, semplicemente non può resistere. Forse quello che da fuori appare, a tratti, come cinismo è soltanto istinto di sopravvivenza, forse è il frutto della mentalità di un paese interamente militarizzato: il film, con la sua aria di non interpretare e non giudicare, inevitabilmente una sua versione la dà. Ma permette anche agli spettatori di farsi un’idea, e non è poco.

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