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Ninna nanna a due voci

Ninna nanna a due voci

Per chi vuole a tutti i costi una definizione, lo si può chiamare documentario: ma quello di Natalie Haziza è più che altro un percorso, un viaggio a ritroso (a tratti maniacale) nella vita e nella personalità di una donna costretta a convivere con un trauma mai del tutto risolto. Un film che ha ben poco da “documentare” e cerca invece, proprio mentre viene girato, una risposta che forse la regista è riuscita pazientemente a ricostruire. Innanzitutto va sottolineata la dimensione intima dell’opera: malgrado l’ambientazione, sono del tutto assenti i riferimenti storici, politici ed etnici in riferimento tanto a Israele, quanto al Sudafrica. Ciò che emerge, sottolineato anche dall’autrice nelle interviste, sono semmai le durissime condizioni di vita delle donne africane, costrette a lavorare spesso a grande distanza da casa per mantenere la propria famiglia. Ma è comunque un aspetto di secondo piano in confronto alla vicenda personale della protagonista.

Incuriosisce anche il problema del rapporto cinema-verità, presente in ogni documentario ma qui particolarmente vivo: l’invadenza della telecamera emerge spesso e volentieri, ad esempio quando Elaine grida esasperata “Vorrei che tu non avessi mai iniziato questo film!”, o quando Rebecca inscena volutamente una serie di abbracci ai figli che fuori scena non sarebbero mai avvenuti. Insomma, il dubbio che la realtà mostrata sia almeno in parte artefatta è ben presente, in un film in cui la presenza delle riprese è addirittura ossessiva: dai video amatoriali che ritraggono Natalie bambina fino alla handycam con cui Elaine riprende la vecchia madre, c’è sempre almeno un obiettivo in scena.

Venendo al cuore del film, bastano pochi minuti per comprenderne la tesi di fondo: la contrapposizione tra la vera madre di Natalie, colpevole secondo la figlia di distrazione e di trascuratezza, e la seconda madre Rebecca che l’ha per molti versi sostituita, diventando una presenza fondamentale nella vita della ragazza fino all’improvvisa separazione. Quest’idea di partenza, che appare a tratti decisamente troppo severa, viene esplorata attraverso una serie di interviste parallele alle due donne – che si ritrovano dopo molti anni con palpabile imbarazzo reciproco – intervallate da filmati d’epoca e dalla bella colonna sonora incentrata sulla “ninna nanna” del titolo. Ma oltre alla contrapposizione, tra Elaine e Rebecca c’è in fondo anche un parallelismo: entrambe segnate da un difficile rapporto con la madre (l’una assente, l’altra troppo presente), entrambe in qualche modo “costrette” a lasciare i figli in mani altrui. Pur separate da storia, cultura, condizione sociale e ora anche dai chilometri, quelle di Rebecca e di Elaine sono in fondo famiglie molto simili, nelle quali la relazione tra madri e figli è resa aspra e a volte dolorosa da un lavoro che è quasi schiavitù e dalla scomparsa della controparte maschile. E
proprio la totale assenza degli uomini, evocati solo per brevi istanti e mai esplicitamente, è l’elemento più significativo, e forse il vero messaggio di quest’opera.

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