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Soffi a vuoto

Soffi a vuoto

«Solo se accetti di essere, allora sei veramente» ammonisce a metà film un precetto vagamente zen. Insegnamento purtroppo disatteso dal Soffio dell’anima stesso, che non vuole o non può essere fino in fondo film “di genere” e si perde in un progetto decisamente troppo ambizioso per le sue possibilità. E sì che gli spunti, nella storia tratta dal romanzo liberamente autobiografico di Valentina Lippi Bruni (anche produttrice del film), non mancavano: la malattia che costringe il protagonista alla dialisi, le discipline spirituali ed esoteriche da cui Alex è attratto e infine l’arte marziale, da lui stesso creata, attraverso la quale tenta di vincere se stesso e sottrarsi alla sua condizione di inferiorità. Nella prima parte, in effetti, il film vive sul contrasto tra la realtà tutta “terrena” di Alex e la sua ricerca di un’esperienza spirituale ed extracorporea: a fare da ponte tra i due contesti, con un simbolismo rozzo ma efficace, la figura di una misteriosa donna cinese. La seconda metà dell’opera è invece una fin troppo dichiarata riproposizione del più classico fighting movie, con tutti gli inconvenienti del caso.

Si tratta, è chiaro, di tematiche delicate, e il rischio di scivolare nel ridicolo è sempre in agguato: talvolta Rambaldi vi cade a capofitto come quando, nel finale, trasforma il suo eroe in una sorta di super Sayan, ma più spesso riesce a gestire la materia in modo dignitoso. Certo, di new age si è parlato in modo assai più accattivante e meno stereotipato persino in Italia (si veda il simpatico Tutta la conoscenza del mondo – Eros Puglielli, 2001); ma, ripetiamo, non è nei motivi “di genere” il problema del film. Ciò che invece fa irrimediabilmente scadere la pellicola è, purtroppo, tutto il resto: i dialoghi privi di ogni spessore, i “buchi” della sceneggiatura, la continua riproposizione di vieti luoghi comuni, l’incomprensibile volontà di esplicitare anche i passaggi più ovvi e banali del plot, i limiti recitativi degli attori. Il tutto raggiunge l’apice nelle scene d’amore tra Alex e Luna, in cui si arriva ad ammannire allo spettatore persino il bacio al ralenti, precipitando in un kitsch alla Tempo delle mele amplificato dall’invasivo commento musicale. La caratterizzazione dei personaggi è poi schizofrenica, passando dai tentativi di introspezione psicologica alla pura caricatura, come nel caso del “cattivo” del film, una sorta di Ivan Drago dell’imolese. Si salva in parte il personaggio di Dario Ballantini, che introduce almeno un tocco d’ironia in un contesto che si prende decisamente troppo sul serio. Di questo soffre anche il protagonista, anche se Flavio Montrucchio (già vincitore di un Grande Fratello…) riesce comunque a emergere in un cast prettamente televisivo.

Il risultato finale delude, e non poco: Il soffio dell’anima finisce per essere una parodia di se stesso, non riesce a incuriosire con il suo spiritualismo patinato e nemmeno a portare fino in fondo – risultato che sarebbe stato certamente trash, ma perlomeno degno di attenzione – il tentativo di un Ragazzo dal kimono d’oro all’italiana. Purtroppo neppure l’obiettivo più nobile, quello di aprire una “finestra” sulla condizione dei dializzati e sul loro inserimento nella società, può dirsi conseguito: le buone intenzioni, anche in questo caso, non bastano.

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