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Otto donne e un tavolo da gioco

Otto donne e un tavolo da gioco

In occasione della festa della donna, il regista Enzo Monteleone confeziona una commedia agrodolce tutta al femminile, traendo il testo da un successo teatrale di Cristina Comencini e riunendo nel cast otto tra le attrici italiane al momento più quotate. Ognuna delle protagoniste racchiude in sé ed esplica nel film un modo diverso di essere donna. C’è la moglie e madre esemplare che finge di non vedere e sapere le infedeltà del marito, quella che ha rinunciato alla carriera da pianista per dedicarsi alla famiglia, quella che ha due case (una per essere moglie e una per essere amante), quella che vorrebbe tanto un figlio nonostante sia single e l’altra che ne aspetta uno ed è piena di timori e così via.

La figura maschile invece è soltanto evocata dalle parole e dai racconti delle protagoniste, non compare mai come presenza fisica nel film, se non virtualmente e quindi sempre in absentia nei momenti in cui le donne parlano al telefono con i loro compagni. Questo aspetto è significativo perché se da una parte permette maggior libertà di espressione alle protagoniste, dall’altra rende le riflessioni monofoniche perché l’unica voce a levarsi dal coro è soltanto quella femminile, nonostante la disparità di timbro che caratterizza le otto donne stesse. Risulta quindi difficile per il pubblico femminile non immedesimarsi in almeno una delle storie o delle affermazioni di cui ci parlano le otto protagoniste in scena. Si può dire che l’uomo sia accusato senza possibilità di replica in un processo in cui non compare, rimanendo fuori dai quattro lati dell’inquadratura (come del resto fa lo stesso regista, rappresentante interno del genere maschile), sicuro della propria insindacabile forza e autorità negli anni Sessanta o perché divenuto una figura troppo debole e piena di paranoie e fobie per poter rubare la scena all’emancipata compagna, com’è invece negli anni Novanta. Le donne al contrario non sono poi tanto cambiate tra una generazione e l’altra e le figlie, seppur con rinnovati strumenti, si trovano a scontrarsi con i medesimi problemi delle loro madri come la maternità e l’insolubile dicotomia tra carriera e famiglia. La tesi di fondo sembra la seguente: essere donne è stato sempre difficile e sempre lo sarà, nonostante i tempi che cambiano.

La derivazione teatrale del film è immediatamente chiara sia nella perfetta unità temporale e spaziale con cui sono organizzati i due blocchi narrativi in cui, eccezion fatta per l’importante ellissi di trent’anni, sono presenti ben pochi tagli di montaggio, sia in parte nella recitazione e nel linguaggio (soprattutto delle prime quattro attrici che conservano alcuni evidenti retaggi del palcoscenico). Il mezzo cinematografico permette senz’altro, rispetto al teatro, di valorizzare dettagli e sfumature, utilizzando primi e primissimi piani ma l’azione cede decisamente il passo alla parola tanto che sembra qui recuperata una delle primissime definizioni di cinema che lo voleva come “teatro filmato”. La forza della pellicola risiede infatti nella brillantezza e arguzia del testo, oltre che nell’interpretazione efficace delle protagoniste, tutte all’altezza del proprio ruolo, capaci di passare con delicatezza dalla tinta della disperazione più nera a quella color pastello di una composta allegria da commedia. Tutto il film si esaurisce infatti nella conversazione, nel monologo senza che si senta la necessità di qualche azione dirompente di cui forse si riesce ad accettare la mancanza per via della durata non troppo prolungata della pellicola.

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