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Vita, morte, miracoli

Vita, morte, miracoli

A parte le numerose differenze con il romanzo di Fitzgerald (lo sfondo epocale di uno, ad esempio, è la Guerra Civile Americana, quello dell’altro copre tutto il ventesimo secolo, dalla fine della Prima Guerra Mondiale fino all’uragano Katrina) e a parte lo zucchero e le lacrime che straripano per tutto il film (niente di male, per carità, ma a volte sembra un troppo calcolato: vedi colibrì), Il curioso caso di Benjamin Button possiede quel qualcosa che riesce a stupire, emozionare e commuovere. Certo, poi c’è chi cerca altro nel cinema e allora farebbe bene a cercarsi quell’altro in altri film, ma qui si respira una certa originalità e, appunto, curiosità, nonostante l’andatura classica di un film che vorrebbe essere un maestoso affresco epico e romantico e che, forse, non riesce del tutto nel suo intento. Fincher, che ritrova Pitt dopo Seven e Fight Club, è generoso nel raccontare la vicenda del bambino nato in strane circostanze, mescola abilmente i diversi piani narrativi e costruisce un gioco ad incastri basato sui legami, gli affetti, i sentimenti, i pensieri sulla vita e quelli sulla morte. È addirittura un film troppo generoso, troppo gentile con se stesso, quasi da dare fastidio. Un film che ha nei suoi limiti la chiave di lettura migliore per essere compreso e concepito. La vita di Benjamin Button scorre davanti allo schermo come l’allegoria di un’opportunità che tutti potrebbero o dovrebbero prendere al volo (ma questo lo scrive Fitzgerald nella sua omonima novella) e Fincher realizza così una storia dal dna cinematografico che dimostra quanto sia ineluttabile lo scorrere del tempo, la potenza esplosiva del suo passare davanti agli occhi degli altri. È generoso e, forse, anche per questo riesce a divertirsi (i finti flashback dei fulmini e la ricostruzione “spezzata” dell’incidente di Daisy ne sono una prova) ma non troppo.

Benjamin Button, un po’ Forrest Gump (non è un caso che Eric Roth sia sceneggiatore qui e lì) e un po’ Big Fish, alterna presente e passato con naturalezza, dosa sense of humor a momenti di tristezza e rancore, si snoda sui ricordi, le parole di un’insistente, instancabile voce off, prova ad interrogarsi sul valore dell’amore vissuto. È un film sulla crescita e la decadenza del corpo ma, soprattutto, anche del cuore e di ciò che una persona custodisce nei suoi pensieri. È un film che racconta della morte, della solitudine, ma non si nasconde quando sceglie la vita, lo sguardo curioso, la passione per una scoperta, per un viaggio, per un incontro.

È un film ambizioso, forse troppo, in grado certamente di emozionare (complici musiche, fotografia seppia, luci e ombre studiate), capace di tenerti lì semplicemente per vedere come andrà a finire, come si chiuderà il cerchio. Ecco allora che, grazie ai limiti, Benjamin Button si rivela un film umano, un film-persona (non è un caso che il titolo sia nominale, come quasi sempre accade anche nel cinema del citato Tim Burton), perché stabilisce una stretta relazione con chi guarda, nel senso che vuole a tutti costi far vedere come il corpo e le sensazioni mutino con il tempo, come, alla fine, il reale si sovrapponga all’irreale. Qualcuno potrebbe chiamarla perversione, qualcun altro voyeurismo, altri condivisione. In ogni caso, è cinema.

Curiosità
Costato 150 milioni dollari, il film ha ricevuto 13 nomination agli Oscar 2009.

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