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Ritorni titanici

Ritorni titanici

Più gradi di separazione di Matteo Mazza *******

Lui guarda lei con rassegnazione. Cerca ancora una volta, per un’altra volta, di specchiarsi dentro la bellezza resistente e i ricordi spezzati. Coincidono gli sguardi tra Frank e April. Non riescono ad andare nella stessa direzione. Sono sguardi feriti che si rincorrono e si appesantiscono con il passare del tempo, conseguenza di troppa polvere, troppe occasioni sprecate e rimandate. La vita di Frank è ovattata dentro scelte subite nelle quali nemmeno lui, artefice di un successo di coppia basato sull’apparenza, saprebbe motivarne l’esistenza. Frank è così. Fermo, bloccato, schiavo di se stesso e chiuso dentro i suoi limiti di uomo. Abbagliato, forse, da troppa bellezza, dal destino, dalla casa bella e dal quartiere che rassicura, che sterza sull’orgoglio, con i vialetti puliti, le foglie sistemate, il giardino in ordine e il peso sullo stomaco. Frank ha deciso di non chiedersi altro, e continua a guardare April negli occhi. April, però, guarda da un’altra parte.

Revolutionary Road di Sam Mendes è questo campo/controcampo ripetuto e persistente. Un film costruito sull’idea dell’amore finito e assopito che prova a confrontarsi ancora una volta con il tempo passato e con le prospettive future. Quella di Mendes e dello sceneggiatore Justin Haythe è una scelta che si chiude in se stessa, soffoca, si stringe, cerca una via di fuga ma finisce col restare costretta e rinchiusa nella gabbia dei sentimenti e del dolore. Che, sembra strano a dirsi, non sono l’unica chiave di lettura di questo intenso e drammatico e patinato film.

Senza livellare strambe interpretazioni sociologiche sui favolosi anni Cinquanta, del paese che si risolleva dal crollo della seconda guerra mondiale in prospettiva di una radiosa rinascita economica, revroad avrebbe potuto essere ancora più potente e graffiante di quanto non lo sia stato. Di fatto, si presenta come la versione matura di una fine d’amore, come la versione acida e bruciante di una fine d’ambizione, come il tramonto della passione e della condivisione, del gesto e dello sguardo nella stessa direzione, appunto. Tuttavia revroad manca decisamente di quell’aspetto che rende il tutto parte di un niente che schiaccia e appesantisce. Quel contesto così protetto e affascinante, così finto e strettamente legato ad un alto profilo socio-monetario, resta troppo ai margini di una vicenda così clamorosamente condizionata da agenti esterni. Ciò che rende la vita di April e Frank così monotona, ripetitiva, senza prospettive, è proprio la vita e le cose che posseggono quella vita. I Wheeler esistono grazie a quelle cose, a quella casa, a quei vicini, a quel giardino a quello spruzzino che innaffia il loro prato verde (che è verde sempre). Privati della loro vita i Wheeler arrivano al capolinea ma questo revroad e Mendes e Haythe ce lo ricordano solo nell’inquadratura finale, quando con lo sguardo di Shep anche noi prendiamo le distanze da quella casa. Così poco amata e così poco diventata nostra. Si instaura così un processo inarrestabile di lenta e progressiva e liberatoria separazione tra noi e l’unico, forse, vero antagonista del film. Non siete d’accordo?

Come Adamo ed Eva di Antiniska Pozzi ********

Frank e April: ovvero, una versione aggiornata di Adamo ed Eva, l’uomo e la donna, la coppia primigenia, l’archetipo di ogni relazione sentimentale esistente al mondo. L’uomo insoddisfatto ma non abbastanza, l’uomo pavido, l’uomo vigliacco. La donna insoddisfatta che esagera e commette un errore irreparabile, la donna gravida metaforicamente e non, la donna che sa vedere ma non con gli occhi della mente. Il loro giardino dell’Eden è una provincia americana degli anni Cinquanta che tutto sommato non ha il peso che si è voluto attribuirgli: sì, ci sono lunghe processioni di uomini tutti uguali, coi loro vestiti e i loro cappelli tutti uguali, didascalicamente grigi, inesorabilmente schiavi di un treno che fa tutti i giorni lo stesso giro in tondo; ma anche se non ci fossero non cambierebbe la sostanza della rappresentazione che Mendes conduce sullo schermo, quella di due esistenze che per volersi migliorare si peggiorano a vicenda, fino all’autodistruzione.

Quello che mette in moto il rapido succedersi degli eventi è la presa di coscienza che non si è, nè in coppia nè da soli, quello che si era creduto di essere: è anche ciò che consente l’identificazione dello spettatore (ove lo spettatore abbia un minimo di sensibilità). L’illusione di essere diversi dagli altri si infrange contro l’improvviso rendersi conto, un bel mattino mentre s’innaffia il vialetto, che ‘noi’ siamo gli altri. E chiaramente, il riscatto dopo l’acquisita consapevolezza, è cosa che riesce a pochi, perché non sempre la soluzione è facile quanto una fuga a Parigi.

Registicamente Revolutionary Road è tutt’altro che rivoluzionario, e mostra sottilmente la lontana provenienza teatrale del suo autore: la scena è fondamentalmente una sola, e tutto è tenuto in piedi dai dialoghi, non solo di due ottimi Leo e Kate (più Kate che Leo, e su tutti la grande empatia che c’è tra loro), ma anche dai ‘secondi ruoli’, leggi Kathy Bates e Michael Shannon (il figlio nevrotico, insolita bocca della verità). La bella sceneggiatura di Justin Haythe rende tutto sommato giustizia ad un libro splendido di cui si è spesso travisato il senso, ma è anche ciò che forse non rende il film particolarmente adatto ad esser compreso e amato dal grande pubblico. Piuttosto sobrio, molto meno estetizzante di quanto avrebbe potuto essere, Revolutionary Road è un bel viaggio nei vicoli ciechi dell’esistenza, attraverso due linee d’ombra: quelle di un uomo e una donna di fronte ai propri sogni. E ai propri limiti.

Curiosità
«Il libro è stato ampiamente considerato come un romanzo contro la provincia americana e questo mi è dispiaciuto… In realtà l’ho concepito più come un atto d’accusa contro un diffuso desiderio di conformità che dilaga in questo paese, e certamente non solo nella provincia, contro quella disperata ansia di sicurezza che si intende raggiungere ad ogni costo. Volevo suggerire che la strada rivoluzionaria inaugurata nel 1776, negli anni Cinquanta era ormai giunta a un vicolo cieco…»
Richard Yates, intervista pubblicata su Ploughshares del 1992.

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