Nostalgia di Ralph (Macchio, ovviamente)
Sarebbe ora che ai film di arti marziali si riconoscesse, senza se e senza ma, la stessa dignità che nel corso degli anni si sono conquistati altri generi inizialmente di nicchia come l’orrore e la fantascienza. Da Bruce Lee a Jet Li, passando per Van Damme e Jackie Chan, i “picchiaduro” cinematografici possono ormai vantare una tradizione, dei capolavori indiscussi, alcuni attori feticcio e anche qualche risultato lusinghiero al botteghino. Insomma, non c’è motivo plausibile per trascurarli, come devono aver capito anche i produttori di questo Never Back Down, palese tentativo di riprendere e aggiornare al terzo millennio il filone portato in auge da Karate Kid (e in seguito da Kickboxer e da Il ragazzo dal kimono d’oro), ovvero quello in cui il giovanotto problematico viene menato, poi trova un maestro che gli insegna a incanalare le proprie energie, e infine mena.
L’idea è buona, non ci piove: film di questo tipo, per quanto ripetitivi e sostanzialmente prevedibili, se ben fatti hanno sempre il loro fascino. E anche il casting ha il suo perché. Sean Faris, nei panni del protagonista, potrebbe ricordare una versione muscolare del primo Tom Cruise, mentre Cam Gigandet ha una faccia da stronzo che basterebbe da sola a tenere in piedi il film e Amber Heard è l’incarnazione della cheer leader che ogni adolescente sogna di farsi al ballo di fine anno. Un discorso a parte lo merita poi Djimon Hounsu, uno che nella vita è anche stato candidato all’Oscar e che qui si diverte, dall’alto dei suoi centonovantuno centimetri di muscoli africani, a innovare un po’ il ruolo del saggio maestro normalmente affidato a dei nonnini asiatici.
Quello che proprio non va, ahimè, è la sceneggiatura. Come dicevo, per fare un film del genere non servono una fantasia mostruosa o un intreccio particolarmente complesso. Sono sufficienti un pizzico di buon senso, un certo rigore formale e una passata finale di ironia. Elementi che, purtroppo, in Never Back Down si avvertono molto poco. Tra feste in villa o in discoteca dove l’intera popolazione liceale si massacra di cazzotti, e pagine di Youtube in cui i video delle risse ottengono più visite della tetta ballerina di Janet Jackson al Superbowl, l’impressione è quella di assistere a uno degli episodi più bassi della carriera di Dolph Lundgren diretto per l’occasione dal regista di Lucignolo. A conti fatti, nient’altro che un tripudio di luoghi comuni, esagerazioni assolutamente gratuite ai quali nemmeno il tradizionale – e forse un po’ discutibile – messaggio conclusivo (“mai scappare di fronte alle sfide che la vita ci mette davanti, anche se tali sfide necessitano che si prenda a calci in faccia qualcuno”) riesce a dare un briciolo di senso. Un vero peccato.
A cura di Marco Valsecchi
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