hideout

cultura dell'immagine e della parola

La verità estatica di Werner Herzog

La verità estatica di Werner Herzog

Nella sua incessante ricerca del limite e dello straordinario, Werner Herzog ha scelto come oggetto del suo ultimo lungometraggio il luogo più estremo della terra: l’Antartide. Le remote regioni dei ghiacci perenni ospitano la stazione di ricerche scientifiche di McMurdo, dove vive una comunità molto particolare di esseri umani che condivide la quotidianità con foche, pinguini, tormente di neve e un sole che non tramonta mai. Il regista – accompagnato solo dall’operatore – ha vissuto al loro fianco, ha condiviso il lavoro e il tempo dell’ozio, e li ha intervistati, presentando allo spettatore una carrellata di biografie sorprendenti: scienziati impavidi, misantropi, filosofi, ex banchieri trasformatisi in autisti di pullman e donne viaggiatrici capaci di chiudersi dentro una valigia. Gli abitanti di McMurdo sono i legittimi discendenti dei primi esploratori che si spinsero sino al Polo Sud, come l’inglese Ernest Shackelton, di cui il regista mostra le imprese temerarie montando il materiale d’epoca con il suo, girato in digitale perché la pellicola non avrebbe retto a temperature così basse.

In Incontri alla fine del mondo, Herzog riconferma la sua eccentricità rispetto a ogni regola e prescrizione, rifiutando la netta divisione fra documentario e fiction e rompendo con lo stereotipo della rappresentazione oggettiva della realtà. La scelta di accompagnare le immagini con la sua voce che racconta e commenta introduce un filtro finzionale ben preciso che avverte lo spettatore che ciò che sta guardando è frutto del punto di vista personale dell’autore, corrisponde alla sua intima percezione del mondo e al suo modo di rappresentarlo. Per Herzog inoltre la verità non solo non può essere trovata, ma non deve essere trovata – e quindi tanto meno trasmessa – può solo essere percepita attraverso illuminazioni momentanee che aprono i sensi all’infinito. Tutto ciò rivela un approccio di tipo kantiano alla realtà: solo l’estasi dei sensi permette all’uomo di andare oltre il visibile – e il verosimile – per accedere alla sfera dell’inconoscibile. Ecco perché l’autore ci porta sotto il ghiaccio, insieme ai biologi-sub che nuotano nel blu profondo, fra scaglie d’argento, misteriose creature marine e stalattiti multiformi. E i nostri occhi rapiti non vengono ricondotti alla cruda realtà dal rumore delle bombole d’ossigeno o dal gorgoglio delle bolle nell’acqua, i così detti suoni autentici; al contrario, noi spettatori veniamo coinvolti in un’esperienza sinestetica totale grazie alla musica, mirabilmente fusa con le immagini in un tutto armonico di profonda spiritualità. Herzog ci fa sentire come il monaco sulla spiaggia o il viandante di Friederick: minuscoli e contemporaneamente immensi di fronte allo spettacolo della natura.

Il senso del meraviglioso tocca punte altissime quando ascoltiamo il canto sotterraneo delle foche, simile ad un insieme di suoni campionati che sembrano pervenire da distanze siderali; o quando la macchina da presa segue la corsa di un pinguino impazzito, che sceglie la traiettoria opposta al branco e si dirige solitario verso una morte certa. La natura ci appare in tutto il suo mistero e le riprese aeree, un topos del cinema di Herzog, concorrono a mostrarne la grandezza enigmatica, insondabile e impossibile da antropomorfizzare (questo era anche il “messaggio” di Grizzly man). Una natura in pericolo, perché anche la leggendaria verginità del polo è ormai intaccata e potrebbe non essere così remoto il momento in cui la terra cesserà di essere abitata dalla specie umana per ritrovare la primigenia purezza. E allora, immagina il regista, ecologista visionario, degli uomini non resterà traccia, se non, forse, uno storione congelato sul quale si interrogheranno senza risposta gli alieni giunti da un altro mondo.

Non c'è ancora nessun commento.

Lascia un commento!

«

»