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cultura dell'immagine e della parola

Venezia, Violet Hill
1 settembre

Una scena di <i>Birdwatchers</i>” /><strong>Siamo attaccati dai film</strong>: ci sfidano, ci fanno addormentare, ci impegnano, ci chiedono un’attenzione totale, ci spingono ai confini (talvolta anche verso quelli della sala). Venezia è un vero viaggio dentro le modalità del visibile, nelle regole di percezione dello spettatore. Ci sono e ci saranno sempre delle critiche contro questo festival: ma mi chiedo che senso abbia. Cosa deve fare un festival di cinema? <strong>Non ne ho idea, ma sono deliziata all’idea che voglia scuotere gli occhi auto compiaciuti dei giornalisti</strong>. Meglio imparare a stupirsi, avere la possibilità di vedere film anche assurdi, da odiare, ma su cui riflettere, su cui allenare il cervello e la penna. Davvero qualcuno pensa di non aver bisogno di vedere i film di questa Venezia?</p>
<p><em>Süt</em>, primo film della giornata, in concorso, di registi turchi Semih Kaplanoglu e Melil Selçuk racconta la storia di un giovane aspirante poeta che vive con la madre. Producono formaggio e vendono latte, ma la scoperta della relazione della madre con un postino getta il ragazzo nel caos emotivo. <strong>Non un film che si gonfia di narrazioni, ma un lavoro che dilata il tempo e lascia che gli avvenimenti accadano davanti alla camera:</strong> l’occhio del regista è sempre lontano, osserva e non interviene. Scommette di riuscire ad appiattirsi così tanto da far entrare in contatto spettatore e racconto. Finisce per accecarci con questa luce che dallo schermo entra in sala, sensazione lievemente imbarazzante; ci proietta, in un certo senso, ci toglie la possibilità di vedere e ci concede quella di vederci/essere visti.</p>
<p><strong>Difficile ma affascinante anche <em>Vegas: based on a true story</em> di Amir Naderi</strong>, iraniano trapiantato negli Stati Uniti: un film in stile documentaristico che nel digitale trova la giusta vicinanza alla storia dei personaggi disperati che vivono nell’immediata periferia di Las Vegas. Una famiglia in equilibrio che faticosamente crea il proprio mondo, per poi disfarlo rabbiosamente alla ricerca di un inesistente tesoro sepolto nel giardino di casa. Sono gli ultimi sopravvissuti ai margini di una civiltà disfatta dal gioco d’azzardo, dagli imbrogli, dalla mancanza di denaro, soprattutto dal desiderio di averne.</p>
<p><strong><em>Birdwatchers</em> di Bechis placa la sete di bel cinema italiano che pare mancare ai giornalisti come il sangue ai vampiri:</strong> un film doppio, tra realtà e finzione, che mescola attori professionisti con indios che rifanno se stessi; il progresso e la ricchezza che sembrano empi a confronto con la libertà che respirano gli indios: libertà di mangiare la terra, di essere corpi parlanti, che cacciano-amano-parlano senza necessità di mediazioni. La foresta che nasconde i misteri della natura e i campi coltivati che appiattiscono ogni magia naturale.</p>
<p><strong>Visto anche il corto del regista di videoclip Martin De Thurah, <em>We who stayed behind</em></strong>: ancora una volta lavora con dei bambini raccontando una storia dal sapore apocalittico: una fine del mondo in cui gli adulti sono spariti, fuggono, ammalati da qualcosa che fa diventare il loro sangue grigio. Come se vene e arterie confondessero il loro flusso, come se la vita stessa perdesse la propia direzione e defluisse dai corpi.</p>
<p>Poi capita così a Venezia, che sia un luogo da vivere dalla mattina alla notte, dormendo cinque ore, rincorrendo le file per entrare in sala, dimenticando il concetto di tempo. E tutto inizia a diventare normale: oggi non posso nemmeno dire di averla vista, ho solo condiviso la stessa sala cinematografica con <strong>Natalie Portman, presente in una sezione con il sui primo cortometraggio da regista, <em>Eve</em></strong>: ancora una volta dunque, e vale anche per la indios di Bechis, sono le donne a portare magia e incarnare la forza e il dramma della natura.</p>
				<p class= A cura di Francesca Bertazzoni
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