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cultura dell'immagine e della parola

Venezia. Sembra ieri
31 agosto

Emmanuelle BeartIeri si è entrati nel vivo del weekend festivalveneziano brindando, tra una minchiata e l’altra, tra una polemica e un grido, uno spintone, un insulto di troppo per la tensione da coda davanti alle sale. Poi si parla di tolleranza zero. Basta intendersi fin da subito su chi la tolleranza non sa nemmeno cosa sia (guardie, maschere, accrediti gialli, blu, rossi o verdi). Comunque. Ieri, meglio del frullato energetico a base di caffeina, nicotina e taurina che si ingoia il protagonista di Inju, è stato il giorno di Vinyan di Fabrice du Weilz, presentato fuori concorso. Un film traumatico che l’amica mia definisce muto anche se non lo è, ma c’ha ragione. Il film del belga du Weilz, sconvolgente per potenza visiva, racconta la storia di una coppia borghese (lei è la splendida Emmanuel Beart) che ha perso il figlio in Thailandia durante la tragedia dello tsunami. Un film estremo che si avvicina alla perdita dello sguardo attraverso il corpo della Beart, straordinaria interprete di una caccia all’identità perduta. E a proposito di identità perdute, ieri è stato il giorno di Ozpetek. Non sono il più agguerrito dei detrattori inorriditi che hanno fischiato e buuato il film, anzi per certi momenti avrei voluto anche applaudire (ma, lo ammetto, forse, solo per spirito di contraddizione), sta di fatto che Un giorno perfetto è un film che si specchia in se stesso, con alcune (poche) buone idee e una serie di inciampi piuttosto pesanti. Il film avrebbe voluto essere il racconto di una tragedia familiare, della rabbia del torto subito, del desiderio di liberarsi dalle responsabilità. Lo è stato in parte.
Poi la Mostra ha regalato due perle inserite nelle sezioni collaterali, Goodbye Solo di Ramin Bahrani e Kabuli Kid di Barmak Akram. Storie di solitudini e difficoltà, fatalità, destini incrociati. Difficile vedere questi titoli nelle nostre sale, e allora è proprio qui che ti scatta un piccolo sorriso pieno di soddisfazione per quello che hai visto.
Anche quando parti convinto e presuntuoso che un certo film possa non piacerti la Mostra ti sorprende. Come nel caso di L’autre, di Patrick Mario Bernard e Pierre Tridivic. Un viaggio nell’anima di una donna nell’estrema ricerca della verità e forse della felicità, dell’equilibrio, di uno spiraglio vitale.

Chi sale e chi scende

Up
Uno. Emmanuelle Beart. Protagonista quasi muta, svestita ma praticamente mai nuda, fisicamente dentro il film come le sue gambe dentro il fango e il suo volto dentro l’acqua, l’attrice francese sbarca al lido in punta di piedi, con un film non in concorso, teso, misterioso, inquietante e pregno di cinema. Traduzione di un (h)orrore umano.
Due. L’incipit, soprattutto, e, più in generale, tutto il lavoro di light design di L’autre, il film in concorso di Bernard e Tridivic. E poi gli sguardi allo specchio, la paranoia, la crisi dell’anima, la penetrazione dell’immagine dentro il corpo della protagonista Dominique Blanc.
Tre. Barmak Akram. Con Kabuli Kid, inserito nella Settimana della Critica, ha realizzato un emozionante viaggio alla scoperta di Kabul. D’avanguardia.

Down
Uno. Chi ancora, nelle sale ma anche fuori, crede di essere e dover essere sincero fischiando, buuando, applaudendo, ma poi non lo è affatto. Fa parte del reparto minchionaggini da festival. Anche perché poi si osannano i film che comunicano la pace, la libertà, il rispetto e la tolleranza. Certo poi, forse, ci ridi su. Ma è necessario? Ieri dicevo di no. Oggi pure, domani chissà.

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